venerdì 31 agosto 2007
Veltroni:"Se il Sud cresce si può abbassare la pressione fiscale."
giovedì 30 agosto 2007
"Tasse più basse e trasparenti. Rivoluzione in dieci mosse"
Quindi, è indispensabile che il Partito Democratico assuma un preciso vincolo: ogni euro di nuova spesa corrente dovrà essere ricavato da un risparmio. Così proseguendo negli anni - e con un buon ritmo di crescita - la spesa corrente primaria potrà essere stabilizzata, in rapporto al Pil, poco al di sotto delle dimensioni attuali. Come? Abbandonando la logica dei tagli orizzontali e giustificando ogni spesa di ogni apparato pubblico dal primo all'ultimo Euro. Poi, misurazione dei risultati, a partire dai dirigenti, premio al merito, penalizzazione del disimpegno; ristrutturazioni e razionalizzazioni nella pubblica amministrazione; eliminazione delle tante duplicazioni e sovrapposizioni di funzioni e uffici pubblici oggi esistenti. In questo modo potranno essere finanziate quelle politiche per la qualità e la mobilità sociale - un sistema universale di ammortizzatori sociali, gli asili nido, la non autosufficienza - che sono indispensabili per lo sviluppo e la coesione. Le risorse per la spesa in conto capitale? Anche qui non potremo contare su aumenti tributari. Occorre sempre più ricorrere a schemi di finanziamento e di gestione attrattivi per capitali privati in cerca di impieghi poco rischiosi e, per la parte pubblica, a nuove politiche del patrimonio. O si gestisce questo patrimonio in modo da ricavarne le risorse necessarie per pagare una quota significativa degli interessi sul debito. O si adottano soluzioni per un'alienazione parziale e selettiva di questo patrimonio, garantendo la piena tutela dei beni culturali e ambientali. In entrambi i casi, è necessaria un'intesa tra Stato centrale ed Autonomie regionali e locali. Il centro-destra si è mosso su una linea opposta: ha finanziato nuova spesa permanente con i proventi una tantum delle dismissioni, non ha ricercato il consenso degli enti locali, ha alienato "all'ingrosso" e non selettivamente. In ogni caso, hic Rhodus: senza chiamare l'attivo patrimoniale a concorrere alla riduzione del debito, sarà quasi impossibile quel rapido salto negli investimenti materiali (strade, porti, ferrovie, aeroporti, metropolitane) e immateriali (la formazione, e cioè i cervelli dei nostri ragazzi) che solo può far tornare a crescere la produttività del sistema.
mercoledì 29 agosto 2007
PRIMARIE: IL VOTO NON COSTITUISCE ISCRIZIONE
VELTRONI: I VECCHI SCHEMI NON REGGONO PIù: è NECESSARIO STACCARSI DALLE IDEOLOGIE DEL PASSATO
PARIGI — Altro che resistere: cambiare, cambiare, cambiare. Veltroni sceglie la Francia di Sarkozy per un messaggio alla sinistra, non solo italiana. Dice che «i vecchi schemi non reggono più», che «staccarsi dalle ideologie del passato rende liberi di guardare al futuro», che «non è guardando indietro che troveremo le risposte giuste». E, guardando avanti, Veltroni non si scandalizza «se Sarkozy, eletto dai cittadini, chiama politici della parte avversa. Fa bene lui a chiamarli e loro ad accettare. Prima vengono gli interessi del Paese, poi quelli di parte ». Nel tardo pomeriggio, quando prende la parola al dibattito della fondazione «I Gracchi», Veltroni parla dell'Internazionale Socialista: al di là dei sostantivi, sono i verbi a far capire l'idea. Coniugati al passato. «Ha rappresentato», l'Internazionale socialista. Per il presente c'è bisogno d'altro, di «una profonda innovazione ». Non siamo solo alla teoria, perché Veltroni pensa già — e lo dice, di fronte all'ex primo ministro Michel Rocard, al commissario europeo Peter Mandelson e al professor Antony Giddens —, Veltroni propone, a una platea di socialisti riformisti, «la costruzione di un soggetto la cui denominazione possa essere Internazionale dei democratici e dei socialisti». Che «sia la casa dei democratici americani, del partito del congresso indiano e di tante nuove forze che in Africa, in Asia e in Europa nascono dalle sfide del nuovo millennio». Basta col passato, coi vecchi schemi, bisogna guardare al futuro. E farlo con «coraggio ». La platea applaude, molti sussurrano commenti nell'orecchio del vicino di posto. Giornata di sole primaverile, a Parigi, e di fronte al teatro dove si sono dati appuntamento i Gracchi c'è un tassista che ripete «Sarkozy» e intanto, con gesto plateale, si asciuga lacrime: la sinistra francese è in difficoltà e molti, per una volta, guardano all'Italia con speranza, con fiducia. E Veltroni propone la sua ricetta: «Il nostro continente è andato a destra perché la sinistra è rimasta imprigionata in categorie che l'hanno fatta apparire conservatrice, ideologica e chiusa».
E quando parla dei giovani, del precariato, Veltroni spedisce un messaggio destinato ad arrivare forte e chiaro in Italia: «Davvero non capisco come la sinistra e gli stessi sindacati possano non avere come priorità l'affermazione dei loro diritti, la creazione di un efficace sistema di ammortizzatori sociali, di contrappesi sul piano della continuità previdenziale, della formazione nella transizione da un posto all'altro, della solidità delle indennità di disoccupazione». Non nomina mai né la sinistra radicale né la Cgil, ma dice in maniera inequivocabile che «ci sono interessi comuni e delle giovani generazioni che vengono prima degli interessi di parte o dei vantaggi di breve termine di chi, peraltro, dispone di una buona quantità di garanzie». Perché, per Veltroni, «la precarietà oggi si traduce in una condizione di sfruttamento paragonabile a quella in cui si trovavano un tempo gli operai delle grandi fabbriche». E quindi «i giovani, il loro futuro, la lotta alla precarietà. E' questo che deve stare più a cuore a tutte le forze del centrosinistra ». Tutte, nessuna esclusa: cambiare, cambiare, cambiare. Il dibattito parigino s'intitola «Le ragioni della sconfitta, le vie della rifondazione »: e Veltroni è qui per spiegare il punto di vista italiano, la parte che a breve, a meno di sorprese, rappresenterà. «Senza la crescita dell'economia e delle imprese ogni obiettivo di equità sociale si allontana. Se l'economia va male non ci può essere giustizia sociale. Il nostro avversario è la povertà, non la ricchezza». Sulla sicurezza: «Chi viola la legge deve essere trattato con assoluta fermezza». Dice che «importerebbe in Italia il sistema elettorale francese», e annuncia che qualcosa prenderà comunque, a Parigi: «Immagino il Pd come un partito sovranazionale. Se sarò eletto alla segreteria, vorrò il contributo, nell'assemblea costituente, di personalità straniere. Tra queste, posso dire fin d'ora che ci sarà il sindaco Bertrand Delanoe». E oggi, a Parigi, c'è spazio anche per discutere di strategie: «Dobbiamo togliere alla destra la bandiera della libertà. Era una cattiva utopia quella che faceva dell'uguaglianza la nemica delle libertà. Oggi, per noi, le due cose non possono stare che assieme». Perché oggi, non importa se in Italia o in Francia, la via per rifondare la sinistra è, per Veltroni, solamente una. Cambiare, cambiare, cambiare.
Partito Democratico: prossimi appuntamementi in Toscana
30/08/2007 alle 21:30 - Festa de l'Unità Ospedaletto - Pisa
Bastione "Molino a Vento" - spazio dibattiti
Partecipano:Sen. Enrico Morando, Presidente Commissione BilancioMassimo Alessandri, Segretario UC Ds GrossetoMaurizio Frosolini, Segretario provinciale Margherita Grosseto
La costruzione del Partito Democratico a Pisa: programmi e alleanze
30/08/2007 alle 21:30 - Festa de l'Unità Ospedaletto - Pisa
spazio dibattiti
Partecipano:Roberta BottiAllegra CanepaAntonio CassoneIvan FerrucciCristiana LamarcaElisabetta NorciElettra StradellaAntonio Veronese
Verso la Costituente del PD
03/09/2007 alle 21:30 - Festa de l'Unità Grosseto
Bastione "Molino a Vento" - spazio dibattiti
Andrea Manciulli, Candidato alla Segreteria regionale del PD Toscano
ne discute con:Massimo Alessandri, Segretario UC Ds Grosseto
Partito Democratico: Verso il 14 ottobre
07/09/2007 alle 21:30 - Festa de l'Unità Ospedaletto - Pisa
spazio dibattiti
Partecipano:Piero FassinoIvan Ferrucci
Per un Partito Democratico di Uomini e Donne
07/09/2007 alle 21:30 - Festa de l'Unità Grosseto
Bastione "Molino a Vento" - spazio dibattiti
Sen. Vittoria Franco, coordinatrice nazionale Donne DsDaniela Bartalucci, coordinatrice regionale Donne DsLuca Sani, segretario Federazione Ds Grosseto
Coordina:Maria Platter, coordinatrice provinciale Democratiche di Sinistra
Pd, Veltroni: Nessuno chieda “con che corrente stai?”
domenica 26 agosto 2007
Tutti schierati in curva, attratti dalle bandiere più che dai progetti
Ecco l'articolo pubblicato su la Repubblica del 24 agosto 2007:
Ma tutto ciò non sembra aver raffreddato la passione. Sembra, all'opposto, averla accesa maggiormente. Rispetto a due anni fa, infatti, la cerchia dei tifosi si è allargata, seppur di poco. E' cresciuta, soprattutto, la componente più coinvolta. Quella che ama e odia, al tempo stesso. Infatti, oltre la metà dei tifosi non si limita a esprimere una passione. Indica un bersaglio sul quale scaricare il proprio risentimento. Sotto questo profilo, peraltro, qualcosa è cambiato, nell'ultimo anno.
Prima, c'era un solo "nemico". La Vecchia Signora. La più amata ma anche la più detestata dagli italiani. Mentre oggi, nella classifica delle antipatie, è stata affiancata dall'Inter. Destino di chi vince. Soprattutto quando i principali avversari sono stati penalizzati o esclusi. Non a caso l'insofferenza reciproca fra tifosi bianconeri e nerazzurri è salita vertiginosamente. Come quella fra milanisti e interisti. Gli scandali e i sospetti, quindi, non hanno abbassato l'attenzione verso il calcio. Né, a maggior ragione, hanno stemperato le divisioni, ridimensionato le appartenenze.
Il fango e la polvere, invece di offuscare le bandiere, le hanno rese più luminose e importanti. Quasi che il calcio fosse diventato un campo nel quale si mette in gioco la propria identità. Nel quale si affermano e si contrappongono le appartenenze personali e sociali. Dove i sospetti e le difficoltà, invece di generare delusione e distacco, suscitano ulteriore coinvolgimento. Così, insieme al tifo, crescono sentimento e risentimento. Ma anche l'indifferenza alle regole. Visto che l'importante è vincere, o comunque far perdere il "nemico", ad ogni costo e con ogni mezzo. Altro che partecipare. (Quanti juventini si sono scoperti romanisti in occasione della finale di Supercoppa...).
Le analogie con la politica, per questo, sono molte ed evidenti. In Italia - e non da oggi - si vota "contro", molto più che "per". Le "identità antagoniste" contano quanto (e forse più di) quelle "protagoniste". Si vota e si è "contro" Berlusconi, prima che "per" il centro-sinistra. Viceversa, si vota e si è "contro" la sinistra e la minaccia comunista, prima ancora che "per" la destra. E poi, Calciopoli, anche linguisticamente, suona a imitazione di Tangentopoli: la madre di tutti gli scandali che hanno scosso, negli ultimi vent'anni, l'Italia.
Ma, come nel calcio, neppure in politica gli scandali hanno allontanato i cittadini. La partecipazione, alle elezioni legislative, si è confermata elevatissima. Le campagne elettorali hanno riscosso tanta attenzione da garantire alle trasmissioni politiche indici di ascolto degni, appunto, del campionato di calcio. E poi, i cittadini si dicono disgustati dalla politica e si scagliano contro i privilegi della "casta" dei politici; e, ancora, denunciano la perdita di significato di ogni etichetta e sostengono che destra e sinistra "uguali sono". Ma poi scendono in piazza, per "protestare". Per denunciare. Esprimono un'elevata "passione" (anti)politica.
Tuttavia, le analogie fra calcio e politica non sono casuali. Visto che il leader dell'opposizione e del primo partito italiano (in precedenza premier) è anche presidente del Milan. I suoi militanti si chiamano "azzurri". Esattamente come i giocatori della Nazionale. Mentre i politici, di ogni parte, i vecchi come i nuovi, parlano di calcio in televisione, vanno allo stadio, esibiscono la loro "fede" calcistica. E poi, la politica - come il calcio - si "fa" e si segue in televisione.
Calcio e politica: si rispecchiano. Si incrociano. Si scambiano reciprocamente i vizi, ancor più delle virtù. Così gli italiani, oggi, si accostano alla politica esattamente come al calcio. Sono faziosi. Partigiani. Attratti dalle bandiere più che dai progetti. Mossi dalle emozioni più che dalle valutazioni. Poco interessati alla qualità del gioco o dei "contenuti". Non c'è spazio per i moderati, per il fair play. Per il rispetto reciproco, per il dialogo. Tutti schierati in curva. Che diamine: siamo un popolo di tifosi.
sabato 25 agosto 2007
BIPOLARISMO
Nella crisi della politica
L’Italia non è il solo paese dell’Occidente a versare in difficoltà di legittimazione della politica. L’erosione è dovuta a fattori diversi. Innanzi tutto alla limitatezza delle politiche nazionali di fronte agli scenari globali, a poteri e a dinamiche sociali e comunicative che non conoscono confini, ad una crisi del sistema di sviluppo e degli ecosistemi che non hanno confini. Poi, come ci ricorda Zygmunt Bauman, in Europa lo spiazzamento è dovuto alla crisi dello Stato sociale, nato negli anni della grande depressione come progetto «di libertà dalla paura». In molti paesi l’elettorato è diviso in due parti pressoché uguali e le elezioni si vincono sul filo di frazioni percentuali. Spesso sono emerse forze anomale, antisistema o ai limiti dei sistemi: integraliste, xenofobe, etnoregionaliste. Mentre sono entrati in scena partiti e leader populisti, non solo nelle fragili democrazie dell’Est europeo, che si sono fatti forti dei sentimenti antipartito. La crisi del modello sociale europeo, che si somma alla percezione degli effetti delle migrazioni e alla minaccia del terrorismo internazionale, divide, crea ansie, insicurezze e così allarga i confini di una politica dell’emotività. E spinge la politica a creare risposte a quel livello, a rilegittimarsi investendo sulla paura, alimentandola, a ridefinirsi cercando nuovi fondamenti reazionari. Tutto ciò chiede più politica e un discorso pubblico nuovo, aderente alle sfide inedite, lontano dagli schemi del passato. Chiede una politica forte, una democrazia efficace, capace di decidere rapidamente, con leadership che impersonino positivamente l’attesa di cambiamento. In altri paesi le istituzioni e i partiti, per quanto più deboli e criticati che in passato, rappresentano riferimenti saldi agli occhi dei cittadini. Anche i partiti, quelli più grandi, sono ancora percepiti quali istituzioni stabili e indiscutibili nella loro funzione da una vasta maggioranza dell’elettorato. Una funzione che si è modificata nel tempo: partiti con più forte comando centralizzato e sostegno pubblico, minore radicamento territoriale e sociale, che mantengono un sostanziale monopolio del reclutamento della classe dirigente politica e del governo ai diversi livelli. Partiti meno legati al loro popolo, ma con una funzione che resta fondamentale, anche per contrastare estremismi e populismi.In un quadro già problematico, l’Italia presenta molte specificità che indicano di una crisi più grave della politica e della funzione dei partiti. Le nostre patologie si sommano alle tare storiche che non abbiamo risolto e che via via si sono accumulate: fragilità alla nascita, infeudamento progressivo e perdita d’efficienza dello Stato; dualismo territoriale; presenza delle mafie; enorme debito pubblico; crollo della natalità; sproporzionata dipendenza energetica; capitalismo fragile e spesso protetto dalla competizione. E poi, dagli anni settanta: crisi di legittimazione e di funzionamento delle istituzioni politiche, decadimento dei partiti politici.L’Italia vive un rischio di declino anche per il suo bipolarismo debole, per l’estrema frammentazione dei partiti, per i costi esorbitanti delle rendite di posizione del ceto politico e per l’inefficienza della politica. Viene facile accostare questa situazione, a fronte dei cambiamenti globali che possono marginalizzare il ruolo del nostro paese, a quella denunciata da Niccolò Machiavelli nel Principe, di un’Italia frammentata in tanti piccoli stati, spesso rivali e fatalmente soggiogati da potenze straniere. Tante immagini si sovrappongono e chiedono oggi alla politica lo stesso coraggio rivoluzionario del segretario fiorentino.La crisi del circuito istituzioni-partiti-società è un carattere determinante della crisi italiana. Perciò si deve dire chiaro che non possiamo accontentarci della politica com’è. Che serve un riformismo dal basso anche su questo versante. Altrimenti perché stupirsi della privatizzazione del potere e dell’insofferenza alle regole che Berlusconi rappresenta? Si alimenteranno ancora l’antipolitica e il qualunquismo che gonfiano i consensi di una destra che al governo ha fallito, sommandosi agli egoismi, ai corporativismi e a tante arretratezze. Ancora, perché stupirsi del sequestro di Abu Omar e della vicenda Telecom-Sismi o del caso sconcertante di spionaggio politico-economico emerso nella vicenda Telecom-Corriere della Sera? Una politica debole non garantisce la sicurezza e l’autorevolezza del nostro paese nei rapporti con gli alleati, né tiene a bada le cordate di potere che condizionano pesantemente la politica. Una politica vulnerabile può invece garantire interessi privati che assorbono beni collettivi e dissipano potenzialità industriali e che possono mettere in vendita anche la sicurezza del paese. Per questo tra lo sforzo per liberare energie, per ricreare crescita economica e dinamismo sociale, e quello per una rilegittimazione della politica, con riforme elettorali e istituzionali e con quell’autoriforma della politica che chiamiamo partito democratico, c’è un legame molto stretto.
Un partito grande
C’è dunque una missione nazionale per un grande partito riformista e democratico. Per questo serve un partito vero, un partito grande: per chiudere una lunghissima transizione, che non per caso è innanzi tutto una transizione istituzionale incompiuta, che oggi espone al rischio di un riflusso in logiche trasformiste. Serve un «redentore», si può dire, citando Niccolò Machiavelli e la chiusa del Principe. La ragione della scelta per il partito democratico sta in primo luogo in questa motivazione di fondo, in ciò che di più urgente dobbiamo fare per futuro dell’Italia e per fortificare la nostra democrazia. Una motivazione che è preliminare alle ragioni di carattere storico o ai disegni identitari e programmatici.Un partito grande, inoltre, è un partito che ha una visione generale e laica della politica e della società e rappresenta meglio l’interesse nazionale, che è trasversale alle appartenenze sociali, e l’interesse dei più deboli, che non può essere tutelato da partiti piccoli. E’ un segno di arretratezza e di smarrimento l’idea che a sinistra si contrappone all’Ulivo di un ritorno al lavorismo, ad un’idea di partiti di appartenenza, necessariamente piccoli: per la rappresentanza esclusiva dei lavoratori dipendenti, ad esempio, e così via. Una visione lontana dalla storia del riformismo di sinistra in questo paese, di quello comunista e socialista, oltre che estranea all’interclassismo cattolico. Ma anche molto distante dalla grande tradizione sindacale confederale della Cgil, come ci ha insegnato tante volte Bruno Trentin. Che oggi si debba ridiscutere di questo è un segno di tempi non felici. L’Ulivo è anche la garanzia di un riformismo che possa rappresentare forti e strutturati legami sociali nel lavoro dipendente, nel lavoro autonomo, nel lavoro d’impresa.
L’Ulivo e il bipolarismo
Il risultato elettorale del 9 aprile e quelli delle elezioni precedenti dove si è presentata la lista unitaria dell’Ulivo sono significativi anche perché ottenuti con sistemi elettorali che non favorivano le aggregazioni. Per l’Ulivo, hanno valso soprattutto ragioni dovute al bisogno di unità, di semplificazione, di razionalità dell’offerta politica in senso bipolare. Il voto all’Ulivo è stato in sé un voto critico e utile: critico della debolezza della politica – e della prepotenza di partiti piccoli, le ricerche ci dicono che i cittadini leggono così, in modo estremamente critico, il cambio della legge elettorale – e utile a valorizzare un’occasione di unità e ad indicare un rimedio, una via d’uscita. Ecco che anche questo consenso si può vedere come riflesso positivo del bipolarismo, come aspettativa e disponibilità, largamente trasversale agli schieramenti, per un sistema dell’alternanza maturo e solido. Una grande risorsa, questa, se sarà valorizzata dalle forze politiche che hanno interesse a migliorare e stabilizzare un forte sistema bipolare. Oppure un grande potenziale di delusione se questa aspettativa sarà frustrata, con un inevitabile slittamento a destra, in senso populista, delle disponibilità dell’elettorato. Dunque, serve non dimenticare mai che la fragilità del bipolarismo italiano e la debolezza della politica non sono di sinistra e non portano a sinistra.La crisi traumatica della prima Repubblica ha prodotto il bipolarismo. Questo si può dire con sicurezza: la durata dei governi si è allungata di molto, l’alternanza di governo è stata messa ripetutamente alla prova, la concezione bipolare della politica è diventata patrimonio di una larghissima e trasversale maggioranza degli italiani. Il bipolarismo è diventato la regola a tutti i livelli, dal governo dei comuni alla politica nazionale. Detto questo, i rischi di un riflusso sono evidenti come i punti deboli in partenza.L’esperienza delle prime elezioni politiche fatte col sistema maggioritario portò a stringere alleanze più ampie possibili, anche a spese della coerenza politicoprogrammatica delle coalizioni. Includendo nelle coalizioni anche forze con comportamenti o programmi antisitema. Date le nuove regole elettorali, la spregiudicatezza inclusiva di Berlusconi già dal 1994 ha creato, insieme, il bipolarismo e una sua grave distorsione. Così, soprattutto per il campo del centrosinistra, si è innescata una dinamica che, a dispetto di ogni positiva razionalità, ha ostacolato la costruzione di partiti più grandi. Il bipolarismo dall’inizio non è riuscito a diminuire il numero dei partiti: fino all’abbandono dei collegi uninominali in Parlamento erano presenti 9-10 partiti. Gli stessi numeri della prima Repubblica, in sostanza, ma senza due partiti grandi che per consensi si staccassero nettamente dagli altri, come furono la Dc e il Pci. Per la pressione dei partiti più piccoli, i regolamenti delle camere, in particolare riguardo alla costituzione e al finanziamento dei gruppi parlamentari, hanno incentivato la frammentazione. All’opposto delle regole ferree antiframmentazione che vigono, per esempio, nel sempre citato sistema tedesco. Poi, con la nuova legge elettorale, i partiti più grandi non sono cresciuti e i partiti presenti in Parlamento si sono moltiplicati e ormai, nell’ultima crisi di governo, si sono contati ventidue gruppi consultati dal Capo dello Stato, ai quali corrispondono venticinque partiti presenti in Parlamento.Alla proliferazione dei partiti ha concorso anche una frammentazione di carattere locale, soprattutto nelle elezioni comunali, per la convenienza ad avere in campo più liste e più candidati in corsa, a contendersi le preferenze. La fragilità dei partiti, sommatasi a regole elettorali assai permissive, che premiano le coalizioni ma non disincentivano la frammentazione, ha dato spazio a liste civiche e al riemergere di micropartiti. La centralità del meccanismo della preferenza ha portato un’ulteriore segmentazione: di corrente, di categoria, di provenienza regionale e di clientela, soprattutto dove questa degenerazione è costitutiva dei sistemi politici locali e si sta aggravando.Tutto ciò ha accresciuto e legittimato ad ogni livello l’ansia di visibilità dei partiti e dunque la loro litigiosità, anche intracoalizionale, e nell’insieme ha complicato e reso ancora meno digeribili i messaggi politici. Là dove, vista la dimensione dei problemi da risolvere, sarebbe invece necessario un fortissimo impatto di alcuni chiari messaggi riformatori. E’ cronaca politica di tutti i giorni: ben rappresentata dai pastoni politici dei telegiornali o dalle cronache locali dei quotidiani. Mentre in altri programmi si vedono crude cronache che rappresentano il disfacimento d’istituzioni fondamentali e l’assenza o l’affanno della politica. Si tratta dunque di messaggi che contraddicono e svuotano il nostro bipolarismo, rendendone sempre più labili le virtù.
Le riforme che servono
I rischi cui espone l’eccessiva frammentazione politica italiana sono evidentissimi. Frammentazione della politica e frammentazione sociale s’inseguono in una spirale perversa. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha usato parole forti. Ha chiesto un’intesa tra i poli per le riforme, per «istituzioni più riconosciute e più forti», per un accordo su «meccanismi elettorali che rendano più lineare e sicura la formazione delle maggioranze chiamate a governare il paese». Ha chiesto «democrazia e trasparenza nella vita dei partiti». E’ il segno di una preoccupazione che dev’essere condivisa. Senza un’efficace riforma della legge elettorale e alcune essenziali riforme della Costituzione non ci sottrarremo al rischio del crollo di un sistema politico debole, delegittimato, con partiti da anni al minimo di credibilità, all’ultimo posto nelle graduatorie di popolarità. Infatti, non c’è il solo scenario, pure inaccettabile, di un lento scivolamento nel declino, con la politica che possa continuare a fare i suoi giochi di parole nel proprio recinto sempre più stretto. Un nuovo crollo, dopo la crisi della prima Repubblica, non porterebbe di certo a sinistra, porterebbe l’Italia più a destra.Serve la riforma del Titolo V, nel senso di un federalismo solidale. Ma non si può essere ancora disattenti alla crisi del Parlamento: serve soprattutto il rilancio del monocameralismo, o del bicameralismo differenziato, con una riduzione complessiva del numero dei parlamentari e con l’istituzione del Senato delle Regioni e delle Autonomie per cui si possa prevedere l’estensione del diritto di voto fino ai diciottenni e l’adozione di un sistema elettorale specifico. E’ utile il rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio, dentro la cornice definita dall’esito referendum costituzionale, per accrescere l’autorevolezza e la stabilità dell’esecutivo. Serve un’armonizzazione delle scadenze elettorali, per evitare la campagna elettorale permanente che vive il nostro paese.Il varco aperto dalla legge elettorale approvata in extremis dalla destra va chiuso, approvando presto una nuova legge, con collegi uninominali e doppio turno, sistema adeguato a risolvere i problemi di rappresentanza e di governabilità del paese, e comunque con un sistema che migliori il bipolarismo – di coalizione o di partito – e consenta maggiore coesione politica delle maggioranze che sorreggono i governi. Un sistema che riduca la frammentazione politica, garantisca il radicamento territoriale degli eletti e il riequilibrio della rappresentanza di genere. Il varco va chiuso e perciò bisogna anche essere aperti alla promozione del referendum abrogativo della legge elettorale: un’iniziativa che se decollerà con la forza necessaria potrà fare pressione per l’approvazione di una buona legge elettorale, in un percorso parlamentare già molto difficile.Dunque l’Ulivo deve avere un suo disegno compiuto, leggibile, comunicabile, non contraddittorio col progetto del Partito democratico, su cui costruire alleanze nella società e suscitare una spinta dal basso, per poi poter condurre da una posizione solida il confronto in Parlamento e le mediazioni che saranno necessarie. Servono riforme che riconcilino la politica con i cittadini. Dobbiamo chiedere a tutti, anche ai grandi partiti della destra, di ragionare con questo respiro. E servono riforme anche per evitare tentazioni neocentriste. Il fatto che oggi si discuta di partito unico della destra con la prospettiva di un’unificazione tra Forza Italia, aderente al Ppe, e Alleanza Nazionale, ancora esterna al Ppe, la dice lunga. Nella scorsa legislatura se ne discuteva per i due partiti italiani del Ppe: Forza Italia e Cdu, come semplificazione possibile, frutto delle dinamiche del bipolarismo e della legge elettorale maggioritaria. Dinamiche che oggi, evidentemente, si sono invertite per il varco proporzionalista apertosi nel sistema. Con una leadership centrista che, dopo aver ottenuto dai suoi alleati la rinuncia al sistema maggioritario, oggi chiede apertamente un affrancamento dal bipolarismo.
Superare la frammentazione, fare partiti grandi e aperti
Quella della frammentazione è una patologia politica italiana molto grave. E’ un record europeo, come ha dimostrato Roberto D’Alimonte: siamo primi per numero dei partiti e ultimi per dimensione dei partiti. La tabella di confronto tra i paesi dell’Unione Europea elaborata da Antonio Floridia dà un quadro chiarissimo. La somma dei due maggiori partiti in Spagna fa l’80%, in Germania il 70, in Gran Bretagna il 68, in Francia – dove i partiti sono in difficoltà – il 58 per cento. Oggi invece, Forza Italia e Ds fanno appena il 40 per cento dei voti. Il partito socialista di Zapatero da solo ha il 43.3% e la Spagna vive il forte dinamismo che vediamo. Ma, fino agli anni ottanta, col sistema già in crisi, anche in Italia la somma dei due partiti più grandi, Dc e Pci, superava il 60 per cento. Mentre alla metà degli anni settanta superava ampiamente il 70 per cento. Dunque, non esiste una maledizione italiana della frammentazione: siamo in una crisi molto grave, ma si deve e si può fare un’inversione di rotta.Il nanismo dei partiti è una delle ragioni di debolezza della politica, di fronte alle dinamiche globali e a quelle economico-sociali che già mettono in discussione le forme e la forza della rappresentanza e l’efficacia della democrazia. Con partiti piccoli si aggrava il deficit democratico dei partiti denunciato da Giorgio Napolitano. Ben oltre il caso estremo di Forza Italia, dove vige un leaderismo assoluto e anomalo – ma ci sono anche noti casi di leaderismo mignon o di partito familiare. Uso le parole di Piero Ignazi: «il fossato tra vertice e base si è dilatato a dismisura, rendendo più efficace la leadership ma minando alla radice l’essenza democratica dei partiti. Il deficit di legittimità dei partiti dipende anche e soprattutto da questo distacco che ha proiettato su di loro un’immagine verticistica e personalistica, in contrasto con il mito razionale della democrazia partecipativa che i partiti incarnano». E’ questa la prima ragione che rende necessarie e ha fatto sperimentare nuove regole partecipative, quali le primarie, per un positiva personalizzazione nei partiti e, in molti partiti europei, il coinvolgimento diretto degli iscritti nelle decisioni essenziali. Sono in calo anche le adesioni ai partiti. I Ds, con i loro seicentomila iscritti, sono il secondo partito europeo, dietro alla Spd (ma la Germania ha 90 milioni di abitanti e la Spd il 34 per cento dei voti). E’ un partito non immune da difetti, ma è di certo un fenomeno positivo, anche perché si tratta d’iscritti veri. La sua vita interna è trasparente e lo stesso non si può dire per molti degli altri partiti. Poi ci sono le statistiche mortificanti sulla rappresentanza di genere in politica: queste parlano da sole e pongono una questione democratica, che va ben oltre i problemi della vita interna ai partiti. Le donne sono sottorappresentate soprattutto là dove si sceglie col voto di preferenza, che si è dimostrato nei fatti un arma micidiale di discriminazione. Mentre lo stesso non si può dire per le primarie: perché in queste, invece, si possono già far valere regole d’autodisciplina e quote per la rappresentanza di genere. Si può aggiungere, guardando all’esperienza, che i partiti grandi sono quelli dov’è più facile il ricambio generazionale – ho presente i progressi fatti in questi anni dai Ds nelle regioni rosse – e l’apertura a forze esterne: un partito grande come il Pci poteva permettersi di eleggere i molti parlamentari della Sinistra indipendente. Oggi invece, con partiti piccoli, c’è molta maggiore chiusura.Dunque servono partiti più grandi e aperti. Mentre vediamo che ci sono poteri che puntano su una politica debole, subalterna, a sovranità limitata. Su partiti piccoli e verticisti, leggeri e manovrabili. Il Partito democratico va pensato invece un partito protagonista di una nuova democrazia dei partiti, popolare e partecipato. Composto da iscritti e non fatto di tessere distribuite a notabili locali e da questi a gruppi di clienti da schierare in qualche congresso. Fatto di uomini e di donne, che abbia in programma di colmare lo squilibrio della rappresentanza di genere, anche con l’adozione di quote di rappresentanza. Che non sia strutturato in modi elitari, né plebiscitari. Che possa anche avvalersi di nuove e trasparenti regole democratiche, quali le primarie. Un partito che sia forte dell’uso della rete, delle esperienze di democrazia partecipativa, di un rapporto pattizio con sindacati, associazioni e movimenti. Che riconosca in modo più vincolante il ruolo di partito degli eletti, per non accrescere ancora la distanza tra le sue rappresentanze e la sua base associativa. Un partito promotore di una legge per la democrazia nei partiti, per la partecipazione politica e per il finanziamento della politica, che interpreti l’articolo 49 della Costituzione, e di provvedimenti seri e incisivi, non demagogici, per ridurre i costi impropri della politica.
La scelta
Non si devono subire le critiche e gli scetticismi per la difficoltà dell’impresa. Si deve chiedere a chi non condivide l’obiettivo del Partito democratico o a chi ancora non se la sente se la politica italiana possa restare così com’è. Se serva o no anche una strategia d’aggregazione bipolare coraggiosa, per ridurre la frammentazione, per fare partiti grandi, insieme a buone riforme elettorali e costituzionali. A questa domanda non si potrà sfuggire. Si può rispondere no, e arrendersi così alla realtà di partiti che, quando sono grandi com’è quello dei Ds, hanno il 17.5% per cento dei voti, tutelare solo il marchio o glorificare coalizioni sempre più frantumate. Pur sapendo che in queste condizioni non si governa nessun altro grande paese, non si fanno le riforme che servono, non si rimedierà ad una società sempre più ingiusta e priva di orizzonti per chi ha bisogno di essere non ostacolato o d’essere accompagnato per costruirsi il futuro. Se invece alla domanda si risponde, responsabilmente: «sì, servono partiti più grandi», allora si dev’essere conseguenti e scegliere. Perché è più realistico affrontare un passaggio difficile, com’è la costruzione di un nuovo partito, provarci davvero, che sperare nella rigenerazione spontanea di un sistema dei partiti che è giunto ad un punto limite. Si potrebbe capire chi dicesse senza infingimenti: «sono d’accordo, però perseguo un altro progetto, quello di unificare i Ds con la sinistra alternativa, con Rifondazione comunista». Si dovrebbe riconoscere valore ad un altro processo d’aggregazione, che contemplasse la scelta di regole per il bipolarismo e contro la frammentazione, che non fosse un altro investimento furbesco su una rendita di posizione. Di più. Alle stesse condizioni, credo che dovremo essere noi dell’Ulivo, costruendo un partito grande, riformista e non moderato, a sfidare la galassia della sinistra radicale e a dirle: «provate anche voi a costruire qualcosa di più grande». Dunque, c’è da scegliere: galleggiare nella crisi della politica, mantenendo i partiti come sono, o aggregare forze per superarla. E’ di fronte a queste scelte che proprio il tema della collocazione internazionale dà conto della fragilità delle alternative al progetto dell’Ulivo. Assunto l’habitat politico del bipolarismo e l’obiettivo di creare partiti grandi come necessità storica, la scelta di unire i Ds e la Margherita, altre forze e movimenti di tradizione ed impegno democratico, per i Ds è chiaramente alternativa a quella di un’improbabile unificazione con Rifondazione comunista, per collocarsi in Europa con Oskar Lafontaine e dunque fuori dal Pse. E per la Margherita è di certo alternativa ad una riunificazione dell’area politica ex democristiana in una formazione neocentrista. Questo è l’incrocio ineludibile cui siamo di fronte. E qui sta l’onere della chiarezza, della proposta e della scelta, che vale per tutti.
Marco Filippeschi è Deputato de L’Ulivo alla seconda legislatura, fa parte della Segreteria nazionale dei Ds ed è responsabile del Dipartimento Istituzioni del partito.
QUATTRO LIBRI CONSIGLIATI:
N. Machiavelli, Il Principe, Torino, Einaudi, 1962.
M. L. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime. Alle radici della politica italiana, Bologna, Il Mulino, 1994.
S. Ceccanti, S. Vassallo, Come chiudere la transizione. Cambiamento, apprendimento e adattamento nel sistema politico italiano, Bologna, Il Mulino, 2004.
M. Mucchetti, Il baco del Corriere, Milano, Feltrinelli, 2006.
venerdì 24 agosto 2007
Un partito maggioritario
Del resto, in nessuna grande democrazia europea sarebbe immaginabile presentarsi agli elettori con una coalizione priva dei requisiti minimi di coesione interna, tali da rendere credibile la sua proposta di governo: un'operazione politico-elettorale siffatta non avrebbe alcuna possibilità di vittoria, perché sarebbe inesorabilmente bocciata dagli elettori. In Gran Bretagna come in Spagna, in Germania come in Francia, i partiti che intendono candidarsi a governare non possono dar adito ad alcun dubbio circa la loro affidabilità. Memorabile è la lezione di moralità politica di Jacques Delors, che preferì rinunciare alla candidatura alle presidenziali del 1995, perché non avrebbe potuto dar vita, alle successive elezioni legislative, a una maggioranza parlamentare coerente. Quasi quindici anni di bipolarismo immaturo hanno ormai reso assai sensibile anche l'elettorato italiano su questo punto: non solo per propria scelta dunque, ma anche per una precisa esigenza di sintonia con il Paese, qualunque sarà il sistema elettorale che avremo in futuro, il Pd non potrà presentarsi alle elezioni all'interno di coalizioni disomogenee sul piano programmatico. Piuttosto, dovrà accettare il rischio, o sperimentare l'opportunità, di correre da solo. Il Partito democratico nasce anche per rompere una falsa alternativa: quella tra governabilità e democrazia. Come non ha senso considerare la sfida del governo come un limite alla partecipazione democratica, allo stesso modo è un errore pensare di poter affrontare le resistenze che si oppongono alle riforme riducendo, anziché allargando, gli spazi di esercizio della cittadinanza. Il Pd al quale penso è un partito che intende mettere al servizio di un incisivo programma riformatore tutta la forza della partecipazione democratica, la mobilitazione delle energie intellettuali e morali, civili e politiche, delle quali dispone una società viva come quella italiana. Non c'è altra strada per fare le riforme: non si può immaginare di dare alla politica la forza necessaria a far prevalere gli interessi generali sulla tirannia di quelli particolari, corporativi, microsettoriali, senza conferirle una nuova legittimazione democratica. Per questo il Partito democratico dovrà essere un partito davvero nuovo. Perché dovrà pensarsi non più come un bene privato, di proprietà della comunità chiusa, per quanto larga possa essere, dei suoi fondatori, dei suoi dirigenti, dei suoi militanti. Ma al contrario come una istituzione civile, che svolge una funzione pubblica e che come tale appartiene a tutti i cittadini che intendono abitarlo. Questo è del resto il modo di intendere i partiti proprio delle grandi democrazie: le quali, non a caso, dispongono di pochi, grandi partiti politici, il ciclo di vita dei quali si misura in svariati decenni, quando non in secoli. Uno dei sintomi più preoccupanti della grave malattia che affligge la democrazia italiana è invece proprio la proliferazione di tanti, piccoli ed effimeri soggetti politici, che è perfino improprio definire partiti, almeno nel senso europeo (per non dire nordamericano) del termine, e che per la loro spiccata vocazione oligarchica, quando non familistica, è ancor più difficile descrivere come democratici. Il Partito democratico nasce per segnare una discontinuità profonda con questo stato di cose. Non a caso si è deciso di fondare il partito nuovo, non sulla base del semplice mandato dei partiti preesistenti e neppure a partire da un appello di uno o più leader, bensì attraverso un vero e proprio "big-bang" democratico: l'elezione di un'assemblea costituente e di un segretario da parte di tutti i cittadini che si dichiarano interessati a contribuire a questa straordinaria impresa collettiva. Di conseguenza, il prossimo 14 ottobre, giorno stabilito per le elezioni costituenti, nascerà un partito che non sarà di proprietà privata di qualcuno, ma si proporrà come un'istituzione della democrazia italiana, a disposizione di tutti i cittadini che, riconoscendosi nei suoi orientamenti di fondo, vogliano utilizzarlo "per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale", come recita l'articolo 49 della Costituzione. Il codice genetico col quale nasce il Pd determina necessarie coerenze rispetto allo sviluppo della sua forma-partito, del suo modello politico-organizzativo. Innanzi tutto, il "big-bang" democratico non potrà restare un unicum irripetibile, ma dovrà diventare la regola generale con la quale saranno prese le decisioni più importanti, a cominciare da quelle che riguardano la selezione della leadership, a tutti i livelli, e più in generale delle candidature, in modo da garantirne la effettiva contendibilità. In secondo luogo, e in coerenza con la natura di partito "a vocazione maggioritaria", a regime la leadership di partito dovrà coincidere con la premiership, o con la candidatura a premier, come avviene in tutte le grandi democrazie europee. Terza, necessaria coerenza, il Pd dovrà essere un partito federale, in grado di dare espressione alla diversità delle realtà territoriali: non ci dovranno essere sezioni "periferiche" di un partito centralizzato, ma una rete di partiti territoriali federati, profondamente radicati nelle società locali, anche se culturalmente aperti a una prospettiva nazionale, europea e globale. Infine, le modalità di associazione e di militanza dovranno essere le più varie e flessibili, secondo un modello a rete, che valorizzi le sezioni territoriali come i circoli di ambiente, le associazioni culturali come le forme più innovative di contatto telematico: è anche in questo modo che il Partito democratico potrà contribuire a portare all'impegno e all'assunzione di responsabilità politiche più donne e più giovani.
PD: parte la macchina organizzativa per le primarie
Veltroni: non facciamoci del male come al solito
Carissimi,
la decisione del Comitato dei 45, presieduto da Romano Prodi, di affiancare alla elezione dei delegati all’assemblea costituente, quella del segretario del Partito democratico, è stata un passaggio tutt’altro che scontato. La mera logica procedurale avrebbe anzi richiesto una netta distinzione tra i due momenti: prima la costituzione del nuovo partito e poi, sulla base del nuovo statuto, l’elezione degli organismi dirigenti.
Se il Comitato ha deciso diversamente, anche contro le perplessità di alcuni, tra i quali io stesso, è perché ha valutato che un’accelerazione del percorso verso il Partito democratico fosse necessaria, per offrire una risposta politica alle difficoltà nel rapporto tra il centrosinistra e il Paese, confermate dal negativo risultato delle elezioni amministrative della scorsa primavera.
Si è detto che il Paese non avrebbe capito un itinerario troppo lungo, al punto da apparire autoreferenziale. E che il percorso costituente avrebbe dovuto risultare da subito politicamente incisivo, capace di corrispondere alla diffusa e perentoria domanda, al tempo stesso, di nuove forme democratiche e di nuovi contenuti programmatici del nostro agire politico.
Accettando di candidarci alla segreteria del Partito democratico, tutti noi ci siamo assunti la responsabilità di corrispondere a questa duplice aspettativa. Sia come singoli, ciascuno avanzando le proprie proposte, sia nei rapporti tra di noi, che stanno già assumendo la delicata e decisiva funzione “costituente” della dialettica politica interna al partito che nasce.Si fa spesso riferimento e paragone con le primarie americane, senza però considerare che negli Stati Uniti si tratta di una tradizione, di un’organizzazione e di una pratica consolidate negli anni, mentre qui da noi è qualcosa di nuovo e di decisamente diverso, perché alla scelta della persona, del leader, si accompagna contestualmente la costituzione di un partito. Cosa che richiede tanta più attenzione, saggezza, spirito unitario e vorrei dire “delicatezza”, perché il modo in cui ci comportiamo contribuirà inevitabilmente a definire l’immagine e la stessa identità del Pd.
Il Partito democratico risulterà più o meno innovativo, agli occhi dei cittadini, anche a seconda di quanto riuscirà ad esserlo il nostro modo di competere, perfino lo stile, il tratto umano col quale sapremo rapportarci tra di noi.
Penso che i cittadini considererebbero innovativo e quindi interessante, degno di essere seguito e in grado di invogliare alla partecipazione, un confronto che rappresentasse una cesura netta rispetto agli aspetti deteriori del nostro ancora acerbo bipolarismo politico. Se il principale difetto del bipolarismo italiano è quello di reggersi più su coalizioni “contro” l’avversario, che su solide alleanze “per” il governo dell’Italia, penso che l’ultima cosa che dovremmo fare, se non vogliamo da subito rinchiuderci nello stereotipo della rissa politica da talk-show, è impostare la nostra competizione nel segno della critica reciproca anziché della proposta al Paese. Costruendo un clima grottesco tra persone che si stimano e hanno sempre lavorato lealmente insieme.I cittadini non sopportano più un confronto politico meramente critico e demolitorio nella dialettica tra avversari. Lo considerano inaccettabile tra alleati. Tra esponenti dello stesso partito lo giudicherebbero semplicemente deprimente. Vorrebbe dire che mentre ci accingiamo a fondare un partito nuovo, ci apprestiamo anche ad impostarne il confronto interno secondo i vecchi e logori schemi del più deteriore professionismo politico, per i quali ciò che conta non è lavorare in modo limpido e aperto per tradurre i valori in programmi e per costruire attorno ad essi il necessario consenso, ma come “posizionarsi” in vista di futuri organigrammi; come conquistare, magari solo per poche settimane, un supplemento di “visibilità” da far valere nelle future spartizioni, come organizzare componenti correntizie per “pesare” e quindi “condizionare” i futuri assetti e le future leadership.
Nel proporre la mia candidatura ho presentato, al Lingotto di Torino, una piattaforma politica che è stata accolta con attenzione e interesse anche in ambienti economici, sociali e culturali da tempo critici nei riguardi del centrosinistra. Non penso affatto che sia l’unica piattaforma possibile e sono convinto che tutte le candidature che sono state avanzate rappresentino una ricchezza. Al tempo stesso credo che il Paese si aspetti dalla nostra competizione un confronto chiaro e trasparente sui grandi temi che riguardano il suo presente e il suo futuro, come quelli che ho cercato di affrontare da Torino in poi: il rapporto tra sviluppo e ambiente, la necessità di un nuovo patto tra generazioni per la sostenibilità del nostro welfare e di un nuovo patto fiscale, il difficile rapporto tra immigrazione e sicurezza, la sfida della società della conoscenza, la necessità di un incisivo pacchetto di riforme elettorali e istituzionali. Tutti noi, credo, abbiamo il dovere di dire come la pensiamo su questi e su altri temi. Per quanto mi riguarda sono favorevole a procedere diversamente rispetto alle primarie che designarono Romano Prodi come candidato premier dell’Unione e a dar vita ad un confronto pubblico sulla base delle regole che ci siamo dati e con pari dignità di tutti i candidati.Allo stesso modo, ci accomuna il dovere di favorire, attraverso lo strumento degli apparentamenti tra candidati alla segreteria e liste per l’assemblea costituente, l’elezione di una platea che sia davvero rappresentativa del grande popolo del Partito democratico. Ci accomuna dunque il dovere di adoperarci per far nascere liste che vedano il mescolarsi delle culture politiche, un forte rinnovamento generazionale che si accompagni al riequilibrio di genere e la presenza, accanto ai dirigenti politici dei due partiti, Ds e Margherita, che hanno avuto il merito di rendere possibile la nascita del Pd, di tanti amministratori eletti direttamente dai cittadini e soprattutto di una vasta rappresentanza del mondo del lavoro, della cultura, delle professioni, del volontariato e dell’associazionismo.
Le regole approvate dal Comitato dei 45 ci chiedono di dar vita, come è giusto e doveroso, ad una campagna elettorale sobria, che privilegi l’uso di mezzi alla portata di tutti ed eviti una ulteriore lievitazione dei costi della politica che risulterebbe inaccettabile agli occhi della stragrande maggioranza dei cittadini. Del resto, non abbiamo bisogno di farci conoscere: la storia di ciascuno di noi è nota e parla da sé. Da parte mia, a queste regole e a questi criteri di condotta mi atterrò con scrupolo.Un’ultima considerazione. La nascita del Pd rappresenta uno degli appuntamenti di maggior rilievo della storia politica italiana. Davanti a noi ci sono immense possibilità, grandi potenzialità. So bene però, perché conosco il nostro passato, che a non farci mai difetto è stata una speciale capacità di farci del male da soli, spesso proprio nei momenti più importanti e carichi di opportunità. Voglio credere che il Pd sarà la terapia giusta, che potrà guarirci da questa sindrome. Dipenderà da ciascuno di noi. Dai nostri comportamenti, dalle nostre parole, dipenderà il grado di apertura del Partito democratico, la sua capacità di coinvolgere gli italiani e di conquistare il loro consenso, la profondità del suo segno di novità, che verrebbe meno se a dominare fossero invece logiche improntate a personalismo, protagonismo o correntismo. Logiche vecchie e piccole che finiscono con l’allontanare chi non le vuole condividere. Ma sono certo che non sarà così. Sono certo che tutti insieme sapremo animare una competizione che potrà segnare una tappa fondamentale nel cammino di riforma democratica dell’Italia.
Veltroni: liste aperte e innovative condizione necessaria del nuovo Partito Democratico
(domani Walter Veltroni renderà nota un’altra lettera aperta rivolta invece a tutti i candidati alla leadership)
giovedì 23 agosto 2007
TRE CONSIGLI PER UN MILIONE
(da L'Unità, 22 agosto 2007)
martedì 21 agosto 2007
Il Sole 24 Ore: il nostro blog tra i più attivi sostenitori di Veltroni
V come Veltroni...
di MASSIMO RAZZI
Di certo, il campione ha colto l'intento propositivo del sindaco di Roma: per il 35%, Veltroni si è limitato a parlare dei problemi del Paese, ma per il 64% (80% degli elettori del Pd, 74% di elettori di altri partiti del centrosinistra e 55% di elettori Cdl) ha proposto anche delle soluzioni. Non solo, il 72% (tra cui il 64% di elettori di centrodestra) affermano di condividere il progetto da lui proposto, anche se questo non significa che abbiano fiducia in lui o siano pronti a votarlo. I giudizi. Alle persone del panel sono state poste una serie di domande sull'impressione che hanno tratto dal discorso. Veltroni è stato chiaro (per il 72%), ha dimostrato preparazione (70%), è stato competente (69%), sincero (68%), convincente (63%), credibile (60%), ha ispirato fiducia (56%). Anche tra gli elettori di centrodestra, queste percentuali sono alte: scendono sotto il 50% solo per quanto riguarda capacità di convincere (48%), credibilità (44%) e fiducia (36%). I voti. I cittadini "testati" hanno anche espresso un voto complessivo sul discorso del candidato alla segreteria del Pd. Il 74% ha espresso voti positivi (da 6 a 10), il 22% voti negativi (da 1 a 5), il 4% non ha dato voti. Interessante notare che la percentuale di voti positivi è altissima (98% e 97%) sia tra gli elettori del Pd che tra quelli degli altri partiti del centrosinistra e scende al 55% tra gli elettori del centrodestra che hanno espresso nel 43% dei casi, insufficienze.