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martedì 11 dicembre 2007

Il Partito Democratico e le intese

Riportiamo la lettera del coordinatore del Partito Democratico, Goffredo Bettini, al direttore Mauro


Caro direttore,

la situazione politica italiana è quanto mai difficile e confusa; tuttavia è in movimento e a certe condizioni presenta nuove possibilità. La nascita del PD ha cambiato tutto. Mantenere il bandolo della matassa non è cosa da poco e abbraccia diversi compiti. In primo luogo: mantenere in vita il governo Prodi e sostenerlo con tutte le forze. Oggi, rappresenta politicamente e socialmente il compromesso più avanzato. E’ evidente che Berlusconi continuerà a giocare la sua partita per avere le elezioni presto. Ma per ora la spallata non gli è riuscita e si trova, anzi, nel mezzo di un centro-destra terremotato e senza progetto. Dunque non è affatto impossibile serrare le fila e mettere in campo da gennaio una agenda di governo di lungo respiro e durata. Il pensare all’oggi, non ci può vedere indifferenti sulle incognite del domani. La crisi del sistema politico è sotto gli occhi di tutti.

Urge la stagione delle riforme. Veltroni ha avuto coraggio di aprirla con decisione. L’attuale maggioritario produce il massimo dell’indecisione. Spinge a coalizioni che si raggruppano per combattere qualcuno. Berlusconi. I comunisti. Si vince ma poi non si governa. Possiamo avere l’ambizione di aprire una nuova storia politica? All’odio improduttivo, si può sostituire una più «mite», ma concreta e ferma, competizione tra progetti diversi?

Un proporzionale corretto da uno sbarramento che semplifichi il sistema dei partiti e realizzi un nuovo bipolarismo, un ritorno alla possibilità di scelta dei cittadini dei propri rappresentanti, sono principi che, oggi, potrebbero trovare il consenso dei più. Anche per evitare un referendum che imporrebbe ammucchiate «coatte» e che per il PD sarebbe il massimo della contraddizione rispetto alla sua «vocazione» maggioritaria e nazionale.

La «vocazione» maggioritaria, non significa l’illusione sciocca di poter far tutto da soli. Allude ad un’analisi dello stato della Repubblica. Al tentativo del PD di intrecciare modernità e inclusione. Modernità significa far crescere il Paese e renderlo competitivo nello scenario internazionale. Inclusione significa qualcosa di molto più profondo che una semplice solidarietà a chi non ce la fa. Significa ristabilire quella misura della giustizia che motiva lo stare insieme di una comunità. Non credo ad un nuovo centro politico, che raccolga solitariamente un moderatismo tecnocratico e razionalizzatore. Sarebbe un progetto rinsecchito e senza popolo. Vedo invece un grande spazio per una inedita alleanza tra un ceto produttivo, creativo e combattivo, soprattutto di medie e piccole imprese (che ha già preso da solo le misure alla globalizzazione ed è allarmato dallo spezzarsi dell’Italia), la sinistra democratica e quella parte del mondo cattolico socialmente responsabile e impegnata.

Cementare queste convergenze è l’obiettivo del PD per competere nel mondo ricostruendo lo Stato; per crescere ritrovando nella giustizia e nelle regole la ragione profonda dell’essere nazione europea. Ma se questo è: comprendo che Rifondazione rivendichi una sua autonomia. Semplicemente perché non pensa che i due termini, modernità e inclusione, possano andare credibilmente insieme. La sua è una critica radicale alla modernità. Ingrao ha detto: ho vissuto la sconfitta del Comunismo e la fine del Leninismo. Occorre aprire una pagina nuova, riflettendo anche sul perché quelle nostre antiche parole si sono accompagnate a tante morti, uccisioni e dolori. Auguro alla nuova formazione radicale e di sinistra di imboccare questa strada di riflessione, piuttosto che quella della giustapposizione di ceti politici che vivono di rendita sulle vecchie bandiere.

Questo nuovo quadro significa che il PD si lascia mani libere? No. Significa che il PD gioca più direttamente la sua partita nel Paese. E cercherà le alleanze a partire dalle intese sui programmi. E se farà compromessi nel centro sinistra (anche con la nuova «cosa rossa»), li farà a partire dalla posizione e dalla forza che gli avranno dato gli elettori e il Paese; in modo, dunque, chiaro e compatibile con la strada maestra che oggi indica per l’Italia.

venerdì 7 dicembre 2007

Le riforme possibili solo se il Governo tiene

Alla riunione del coordinamento nazionale il leader del Pd conferma il sostegno al Premier. Leggi in allegato l'articolo di Bruno Miserendino - tratto da l'Unità di venerdì 7 dicembre - che ripercorre la giornata politica appena trascorsa.

martedì 27 novembre 2007

La lettera dei giovani democratici a Walter Veltroni

Pubblichiamo la lettera dei ragazzi delle formazioni giovanili dei ds e della margherita e delle associazione della società civile al segretario del Partito Democratico


Caro Walter,

la passione che ha spinto tre milioni e mezzo di italiani a partecipare, poco più di un mese fa, alle primarie del nostro nuovo partito, sta dando i suoi frutti. Le ragioni che animavano quel travolgente fiume di persone hanno impresso una spinta davvero innovatrice al centrosinistra, alla maggioranza di governo, all’intero sistema politico nazionale.Ci siamo dati un nome impegnativo, una nuova sede, un gruppo dirigente che racconta bene il senso della nuova stagione che vogliamo intraprendere. Abbiamo una leadership forte ed autorevole. E ora, anche un nuovo simbolo, al quale sono affidate le più profonde speranze di cambiamento di una intera generazione. Essere giovani nel 2007 non è facile. Le certezze con le quali sono cresciuti i nostri genitori non ci sono più, l’Europa è un orizzonte politico ancora incompiuto, la globalizzazione distribuisce in maniera iniqua i suoi frutti e le sue possibilità, i cambiamenti climatici minacciano il futuro del pianeta, la democrazia è un patrimonio ancora troppo poco condiviso.


Ma è più difficile essere giovani in Italia. Un Paese affaticato, stanco, incapace di investire sui suoi talenti, di valorizzare le sue infinite risorse; un Paese in cui avere meno di trentenni è un limite, che troppe volte discrimina il merito, rifiuta la competizione. Un Paese che non spinge a dare il meglio di sé e che consuma il suo futuro, un anno dopo l’altro. Che lascia in panchina o manda all’estero i suoi fuoriclasse. E, soprattutto, un Paese in cui il sacrosanto patto di solidarietà tra le generazioni è costruito sul consolidamento di tante iniquità. La precarietà avvolge le nostre vite, l’accesso al mercato del lavoro è faticoso, la ricerca sottovalutata, le ambizioni artistiche represse. In altre parole la prospettiva di costruire una famiglia e un futuro di indipendenza è il principale diritto civile negato nel nostro Paese. Ancora più difficile, inoltre, è avere voglia di politica, di buona politica, nel nostro Paese. Un sistema ingessato e bloccato, spesso totalmente autoreferenziale, incapace di rinnovarsi e di coinvolgere le giovani generazioni. Una politica ripiegata sui talk show televisivi e i lanci d’agenzia, che non frequenta i canali di comunicazione innovativi, i media utilizzati dai più giovani. Un’arte nobile ridotta spesso ad argomento per addetti ai lavori. Una politica che ha smesso di incidere sui grandi temi, ma che non sa neanche proporre ricette coraggiose e risolutive per i problemi delle persone, dei cittadini del nostro Paese. Nonostante tutto questo, in Italia, c’è una generazione pronta a farsi sentire, che vuole bene al suo paese, ma che lo vuole diverso, che è pronta a credere nel futuro, che reclama politica. Una generazione che ha, insieme, la forza dei grandi sogni e la concretezza necessaria a misurarsi con il quotidiano. Che prova a combattere insieme la precarietà sul lavoro e la fame nel mondo. Che vuole spazio, che chiede cielo e terra. La scommessa che ti proponiamo è proprio questa: ascoltare questa generazione, incontrarla, stimolarla, valorizzarla. Darle un ruolo da protagonista nel percorso che stiamo costruendo. Una grande scommessa collettiva. Tenere insieme questa generazione di nuovi italiani e costruire un filo di speranza, di condivisione con i ragazzi di tutto il pianeta. Un legame ideale che unisca i ragazzi che combattano la criminalità organizzata e reclamano legalità nel mezzogiorno ai giovani monaci birmani che sfilano per la democrazia, i nostri coetanei che si impegnano nel volontariato con i due miliardi che hanno affollato, quest’estate, i concerti di Live Earth, il grande progetto ambientalista di Al Gore in ogni parte del mondo.

Vogliamo costruire insieme i Giovani Democratici, lo spazio generazionale del nostro partito. Vogliamo farlo con modalità totalmente nuove, che permettano di mettere insieme le potenzialità che avevano i movimenti giovanili, nei quali alcuni di noi hanno fatto esperienza, ma che non si portino dietro i difetti di realtà spesso inadeguate, che garantiscano il coinvolgimento delle centinaia di migliaia di ragazzi che hanno partecipato alle primarie del 14 ottobre, ma che permettano di andare molto oltre.Vogliamo uno spazio comune per i tanti, tantissimi giovani, che vogliono iniziare una nuova storia. E per i quali il Partito Democratico è l’inizio di tutto, non la fine di qualcosa. Per questo dobbiamo lanciare una grande mobilitazione nel Paese, centrata sulle questioni concrete, sui temi che riguardano il futuro degli oltre quindici milioni di under 30 e, quindi, il futuro di tutto il Paese. Perché è questo il bello della nostra generazione e delle sue battaglie: nel paese delle corporazioni, saremo quelli che lottano per l’interesse generale, che si battono per la coesione sociale, per uno sviluppo davvero sostenibile.

Immaginiamo, con il tuo sostegno, di dar vita alla costruzione del movimento giovanile secondo modalità davvero innovative. Con le primarie innanzitutto, con la rete, con le infinite possibilità del web. Vogliamo andare incontro a questa generazione nei luoghi che frequenta davvero: dalle scuole alle università, dagli spazi del tempo libero a quelli del lavoro. E’ giunto il momento di sperimentare davvero. La considerazione che il vino nuovo non può essere messo negli otri vecchi vale anche per noi. Soprattutto per noi. C’è bisogno della nostra fantasia per osare una politica più lieve ma anche più ambiziosa, per usare parole che siano al contempo forti, chiare, ma anche un po’ più umili e vicine alle persone, per ripartire dalla sostanza, dal contenuto, più che dalle forme e dai contenitori. La sfida di un impegno deciso ma sorridente, faticoso e insieme spensierato. Lo dobbiamo ad una generazione che ha dimostrato tante volte che si può crescere senza avere paura del futuro, che si può diventare grandi assumendosi le proprie responsabilità, scommettendo su di sé e sulle proprie qualità.. Ad una generazione che non vuole delegare responsabilità ma vuole giocare la propria partita da protagonista. Ci sono tanti campioni fra i ragazzi di questo Paese. Diamogli la possibilità di dimostrare quanto valgono, in un’Italia che non lo fa abbastanza, sotto la bandiera del nostro bel tricolore democratico.

Gianluca Lioni
Luigi Madeo
Luciano Nobili
Pina Picierno
Michele Samoggia
Mattia Stella
Roberto Speranza
Fausto Raciti

sabato 17 novembre 2007

Legge elettorale, Vassallo: la proposta Veltroni crea un nuovo bipolarismo

La dichiarazione di Salvatore Vassallo ed in allegato l'editoriale pubblicato sul Corriere della Sera.


Roma, 12 nov – Un sistema con "due grandi partiti a vocazione maggioritaria, chiaramente antagonisti", che "non favorirebbe operazioni centriste" e che "penalizza i piccoli partiti senza cancellarli". Salvatore Vassallo, uno degli estensori della proposta di legge elettorale avanzata da Walter Veltroni, intervistato da L'Unità difende dalle critiche dei referendari il sistema suggerito dal segretario del Pd. Un sistema che crea un "nuovo bipolarismo", superando le coalizioni "forzose ed eterogenee" che hanno caratterizzato la seconda Repubblica. Dopo aver ricordato la sua partecipazione al movimento referendario, il costituzionalista bolognese spiega che i rischi paventati dai promotori del referendum "si attenuino molto, fino ad annullarsi, col sistema proposto. Il sistema tedesco ha il difetto di non produrre incentivi in senso bipolare e di dare eccessive rendite di posizione ai partiti di centro. Il nostro sistema non si limita a fotografare proporzionalmente il peso dei partiti, ma incentiva i grandi partiti a vocazione maggioritaria e penalizza i piccoli, senza per questo cancellarli di colpo con uno sbarramento fisso". E questo in virtù delle dimensioni delle circoscrizioni e del numero dei collegi al loro interno: con un esempio pratico, "un partito intorno al 5% può avere seggi anche se non supera quella soglia, ma deve sapere che difficilmente avrà più del 2% dei seggi". Quanto alla possibilità di intese tra i partiti dopo il voto, Vassallo riconosce che "potrebbe accadere che nessuna delle coalizioni identificate prima delle elezioni ottenga la maggioranza assoluta dei seggi. E' dunque possibile che sia necessario fare ulteriori accordi dopo il voto, partendo però dal riconoscimento che uno dei grandi partiti avrà vinto e sempre che non sia possibile per il vincitore dar vita a governi di minoranza". Insomma, gli elettori non sceglieranno più il governo? "Questo lo garantisce con certezza solo il premio di maggioranza o il maggioritario puro. Ma questi due sistemi hanno dato vita in Italia a un bipolarismo costrittivo, che non funziona".
Clicca quì per leggere l'articolo

lunedì 12 novembre 2007

Una legge elettorale proporzionale e bipolare

Su L'Unità Stefano Ceccanti spiega la proposta di legge elettorale annunciata da Walter Veltroni.
Su L'Unità Stefano Ceccanti analizza l'attuale sistema elettorale e le quattro indicazioni per una proposta di legge elettorale annunciate da Walter Veltroni.
Clicca quì per leggere l'articolo

giovedì 8 novembre 2007

AL PD SERVE UNA NUOVA GRANDE ORGANIZZAZIONE GIOVANILE


di Fausto Raciti e Roberto Speranza, Segretario e Presidente della Sinistra Giovanile Nazionale

La stagione politica che si è aperta con la nascita del Pd rappresenta una straordinaria opportunità per le giovani generazioni. Si tratta, innanzitutto, di ridare senso e funzione alla politica, di ridefinirne un profilo tale da renderla il principale strumento per la costruzione di una realtà migliore.

Le sfide che l’Italia ha davanti a sé sono alte e complesse. Trovare il proprio posto nel “nuovo mondo”, quello globalizzato, rafforzare il processo di integrazione comunitaria, ricostruire coesione tra i tanti pezzi che compongono il “mosaico sociale” della nazione: nord e sud, giovani e non, lavoratori precari e stabili, cittadini ed extracomunitari. Solo così sarà possibile ridare fiducia a ragazzi condannati dagli assetti sociali dell’Italia a competere nella parte bassa e dequalificata del mercato del lavoro, presi da una certa sfiducia - dato più antropologico che politico - nelle proprie possibilità, in un Paese che cresce poco e redistribuisce sempre in direzione degli interessi organizzati.

La “nuova politica” dovrà essere in grado di costruire un rinnovato senso dell’essere italiani, una nuova missione collettiva rispetto al futuro dell’Italia.

Il Pd, serve prima di tutto a questo. Nella sua azione politica e di governo, dovrà misurare costantemente la sua sintonia con la nostra generazione. Dovrà saper intaccare e disarticolare le corporazioni della società italiana, mettere realmente al centro i saperi, la scuola e l’università, concepiti come gli asset fondamentali della società di oggi e del futuro, saper promuovere merito, talenti ed innovazione, liberando il lavoro dalle degenerazioni della precarietà e offrendo al Paese una prospettiva di equità e sviluppo.

Le prime scelte del nuovo partito vanno nella direzione giusta. Le elezioni primarie e la composizione delle assemblee costituenti segnalano una carica di innovazione significativa. La parità dei generi e la presenza degli “under 30” sono un elemento di indiscutibile avanzamento sul terreno dell’innovazione della politica. Su queste basi riteniamo fondamentale dar vita ad un nuovo grande soggetto politico generazionale.

Ci ha fatto riflettere vedere tanti giovani votare e candidarsi. Quando parliamo di giovani parliamo essenzialmente di studenti, ricercatori, lavoratori e disoccupati, che hanno deciso di fare un pezzo della loro strada insieme a noi, nel Pd. Questi ragazzi hanno partecipato perché, per una volta, hanno avuto l’occasione di essere protagonisti. Tale protagonismo non crediamo vada disperso, ma valorizzato.

Siamo ragazzi di questo paese che con fatica e piacere, quotidianamente lavorano per un paese migliore con migliaia di coetanei.

Vogliamo dare vita ad un progetto politico e generazionale, che interpreti le esigenze dei giovani italiani, strutturato, fortemente territoriale, plurale nelle forme e nei linguaggi. Non ci interessano operazioni di facciata, ma la creazione di nuovi spazi con tutti i ragazzi disposti a farlo, da Enna a Bolzano, da Bari a Genova. Non ci vogliamo ghettizzare, ma offrire a questo nuovo grande partito l’opportunità di “dare priorità al futuro”.
Lo ha scritto bene su “Europa”, pochi giorni fa, Piero Giacon, giovane costituente del Pd.

La Sinistra Giovanile ed i Giovani della Margherita, le due organizzazioni giovanili di Ds e Dl, sono stati strumenti importanti di rapporto con le giovani generazioni. Esse hanno promosso la partecipazione studentesca nelle scuole e nelle università, nei luoghi dell’aggregazione, nei territori, sensibilizzando una generazione su grandi temi come la pace, il lavoro, l’ambiente, i diritti e misurandosi con le grandi e piccole battaglie del quotidiano.

Oggi va reinterpretato il ruolo di queste organizzazioni. Lo vogliamo fare in forme nuove, facendo all’associazionismo e dei movimenti, così come delle tante realtà che guardano con interesse alla costruzione del Pd elementi costitutivi, linfa vitale, per il nostro nuovo percorso.

Lo vogliamo fare mettendo al centro quelli che il 14 ottobre hanno votato alle primarie, e quelli che ad ogni livello, con determinazione e coraggio, sono stati eletti. Siamo convinti che questo sia il modo migliore per fare vivere il Pd tra le giovani generazioni, offrendo loro una casa, un luogo in cui partecipare in maniera attiva alla vita del loro Paese. Pensiamo ad un’organizzazione che incontrerà i giovani italiani nei luoghi dove essi vivono quotidianamente. Nelle scuole, nelle università, sul lavoro, come pure nei luoghi della socializzazione e del divertimento. Per questo crediamo che sia indispensabile, a partire dai prossimi giorni, iniziare il percorso per dare vita al nuovo soggetto generazionale, partendo dagli eletti nelle varie assemblee costituenti ma sapendo che gli eletti non sono sufficienti. Per questo ci rivolgiamo alla Sinistra Giovanile, ai Giovani della Margherita, a tutte le reti associative giovanili che in queste settimane hanno lavorato alle elezioni primarie ed a tutte le ragazze e i ragazzi che il 14 ottobre hanno votato.

Ci rivolgiamo a tutti i ragazzi di questo paese ed al segretario Walter Veltroni, perché ascolti la nostra richiesta di attenzione verso la nuova politica, che non può che passare per le giovani generazioni: crediamo che sia indispensabile, a partire dai prossimi giorni, costruire un comitato promotore nazionale e relativi comitati regionali. Chiediamo che siano protagonisti di questo la Sinistra Giovanile ed i Giovani della Margherita che, a partire dagli eletti nelle assemblee costituenti, costruiscano una rete per dare vita al nuovo soggetto generazionale.

Per parte nostra, la Sinistra Giovanile metterà a disposizione tutte le proprie migliori risorse, la propria storia e la propria esperienza; nella convinzione che oggi più che mai le ragioni dell’impegno politico della nostra generazione abbiano senso e trovino un campo fertile e ampio in cui cimentarsi per la costruzione di una realtà migliore.

domenica 28 ottobre 2007

Il nuovo partito che rompe con il '900

EUGENIO SCALFARI

Faceva senso assistere ieri all'assemblea costituente del Partito democratico avendo ancora negli occhi l'aula del Senato riunita per dodici ore di seguito e scossa da un piccolo ma continuo maremoto di voti e controvoti. Faceva senso la nascita d'un partito fondato da 3 milioni e mezzo di persone - fatto mai accaduto nella storia europea - rispetto alle pervicaci rissosità di partiti-mosca che stanno devastando la maggioranza parlamentare e che, tutti insieme (sono poco meno d'una dozzina) rappresentano il 5 per cento dei consensi elettorali.

All'assemblea costituente di Milano (quasi metà dei suoi delegati erano donne) aleggiava una richiesta di unità, onestà, competenza, innovazione. Si è parlato di passato e di presente ma soprattutto di futuro. Prodi e Veltroni, in concordia tra loro, hanno confermato che con la legge elettorale vigente è impossibile andare a votare; riecheggiando le parole e il giudizio più volte ripetuto dal Capo dello Stato hanno detto che votare con la "legge-porcata" di Calderoli sarebbe una beffa per gli elettori e renderebbe per la seconda volta il Paese ingovernabile.

In Senato si votava il decreto fiscale ma i pensieri dei guastatori erano altrove. Vedevano quel voto come l'occasione per regolare i conti tra loro e nello stesso tempo lavorare "al corpo" Prodi e lo stesso Partito democratico la cui nascita è vista come minaccia all'esistenza dei micro-partiti e dei loro grotteschi apparati.

Gran parte dei "media" l'altro ieri hanno titolato sulla sconfitta parlamentare del governo, messo in minoranza per sette volte dal voto variamente congiunto dell'opposizione e dei senatori "nomadi" o "apolidi" che dir si voglia. Almeno in apparenza avevano ragione di aprire con quella notizia.

Avrebbero tuttavia dovuto valutare che l'esito parlamentare della giornata non era quello. Il decreto fiscale è stato convertito in legge senza alcuna variante rispetto al testo governativo, dopo 350 votazioni in 12 ore che l'hanno interamente confermato. Le sette votazioni incriminate sono avvenute su emendamenti marginali presentati durante il dibattito in commissione e approdati in aula, su cinque dei quali il governo si era rimesso all'assemblea per la loro irrilevanza. Nel voto finale sulla conversione in legge la maggioranza ha vinto con i soliti due voti di scarto.

Sono pochissimi e a rischio continuo di incidenti di percorso, ma questi sono appunto gli effetti nefasti della legge - porcata approvata nello scorcio della precedente legislatura dalla maggioranza di allora, ivi compresa l'Udc di Casini che oggi giustamente reclama una legge diversa.

Faccia almeno le sue scuse agli elettori l'Udc di Casini e dichiari d'aver sbagliato e di essersi pentita. Invece no, si dichiara vittima della legge che ha voluto e si dice pronta a votarne un'altra migliore ma solo se prima Prodi si sia dimesso. Dove stia la coerenza non si capisce, ma sono tante le cose di Casini che non si capiscono.

* * *

Sul voto in Senato di giovedì scorso si è per l'ennesima volta innestata la polemica contro i senatori a vita e in particolare contro l'ultranovantenne Levi-Montalcini, bersaglio di insulti definiti giustamente indegni dal Presidente della Repubblica. Indegni perché scagliati contro una donna, contro una scienziata insignita di altissime onorificenze al merito e contro un membro del Senato che ha gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri componenti di quel ramo del Parlamento.

Credo che la migliore definizione di questo problema inventato dal centrodestra l'abbia data Oscar Luigi Scalfaro nell'intervista di ieri al nostro giornale: il voto dei senatori a vita non appartiene ad alcuno schieramento ma agli interessi generali del Paese e alla salvaguardia della Costituzione. Sta dunque a ciascuno di loro giudicare quali siano i temi che richiedono la loro presenza in aula e determinano il loro voto.

Ha perfettamente ragione Scalfaro. I senatori a vita Andreotti, Colombo, Levi-Montalcini ritengono evidentemente che l'approvazione della Finanziaria e dei suoi collegati sia un esito conforme all'interesse generale e per questo partecipano a sedute snervanti. Penso che così debbano fare anche gli ex Presidenti della Repubblica che siedono a vita in Senato a meno di eccezionali motivi di impedimento.

Dovrebbero farlo anche per solidarizzare con la senatrice Levi-Montalcini; affiancarla nel voto è la maniera più efficace per manifestarle solidarietà. Mi auguro perciò che non deluderanno le nostre attese; dopo tutto è in gioco una legge fondamentale per l'economia del Paese; la sua caduta produrrebbe danni assai gravi all'economia italiana e al credito di cui per fortuna ancora godiamo in Europa e nel mondo.

* * *

Il discorso di Veltroni all'assemblea del Pd ha, mi sembra, ha soddisfatto pienamente le aspettative di milioni di cittadini che hanno votato per lui e per il nuovo partito e per i tanti altri milioni che guardano con fiduciosa attesa alla sua crescita nella realtà sociale e politica. Ha ribadito il programma già toccato al Lingotto di Torino quando accettò la candidatura; ha riaffermato che il Pd si muoverà nel segno dell'innovazione e della discontinuità; infine ha ricevuto da Prodi e dall'assemblea il mandato di negoziare con tutte le altre forze politiche una nuova legge elettorale che ci liberi dalla situazione attuale.

Ma è evidente che d'ora in avanti le posizioni del Pd e di Walter Veltroni avranno un peso determinante sulle decisioni del governo, sulle delicate questioni dell'economia, della fiscalità, della giustizia, delle liberalizzazioni, dell'istruzione. Nonché sulle questioni eticamente sensibili, come oggi si definiscono quelle che coinvolgono anche il rapporto tutt'altro che facile tra lo Stato e la Chiesa.

Certo Veltroni non deciderà da solo; avrà una squadra e avrà addosso gli occhi di quei tre milioni e mezzo di cittadini che hanno votato Pd per poter partecipare alle decisioni.

Qui viene acconcio parlare della discontinuità evocata dal nuovo segretario. Che cosa voleva dire Veltroni con quella parola? Discontinuità rispetto a chi e a che cosa? Veltroni l'ha chiarito ma giova ripeterlo perché si tratta di un punto essenziale. Discontinuità del Pd rispetto all'organizzazione dei partiti di massa del Novecento: la Dc, il Pci, il Psi e i partiti piccoli e piccolissimi che con questi tre maggiori hanno convissuto intrecciando con essi le loro vicende.

I partiti del Novecento erano costruiti sul territorio, avevano una struttura gerarchica piramidale, le correnti proliferavano e si finanziavano autonomamente assumendo forme di sotto-partiti veri e propri sia pure nell'ambito d'un contenitore comune. Questa è stata la storia della partitocrazia, della cosiddetta costituzione materiale con la quale i partiti soffocarono lo spirito e la lettera della Costituzione repubblicana degradando e occupando le istituzioni, nessuna esclusa, a cominciare dalla massima carica dello Stato. Gran parte delle cause che portarono alla fine di quel sistema fu proprio la degenerazione partitocratica, i finanziamenti illeciti, la corruzione elevata a metodo accettato e legalizzato.

La Seconda Repubblica nacque per ricostruire l'effettiva rappresentatività dei partiti e il loro nesso tra la società e le istituzioni, ma ha mancato questo obiettivo.

Gli errori sono stati tanti e vanno equamente ripartiti, ma l'errore di fondo è stato per l'appunto la persistenza della vecchia forma-partito gerarchica, burocratica, correntizia.

Questo è dunque il punto sensibile sul quale Veltroni ha deciso di operare una sorta di rivoluzione riservando ai tre milioni e mezzo di cittadini-fondatori del Pd un ruolo di decisiva partecipazione attraverso la scelta dei dirigenti regionali e di tutte le candidature ad incarichi pubblici nazionali, regionali, locali. Accanto ad essi una rete di "volontari della politica" cioè di militanti dedicati all'organizzazione esecutiva e all'attivazione di associazioni tematiche per l'approfondimento degli argomenti e la proposta di nuove idee e iniziative.

Se come sembra questa sarà la forma-partito dei democratici è lecito prevedere che anche altre forze politiche saranno indotte a farla propria creando una generale e benefica innovazione nella società politica italiana e probabilmente europea.

* * *

Debbo, per finire, dedicare l'attenzione che merita al discorso pronunciato venerdì dal Governatore della Banca d'Italia all'Università di Torino; un discorso sull'economia italiana pieno di dati e di riflessioni.
I resoconti giornalistici e i primi commenti si sono concentrati su alcuni punti salienti di quel discorso: crescita frenata e insufficiente dei consumi negli ultimi quindici anni; salari ai lavoratori dipendenti troppo bassi rispetto ai livelli salariali di Francia, Germania, Gran Bretagna; troppa bassa produttività; disparità salariali tra vecchi e giovani; troppo lunga permanenza dei figli nelle case paterne; cattiva istruzione nelle scuole superiori; necessità di investire nel "capitale umano"; età pensionabile troppo bassa; maggiore flessibilità nel mercato del lavoro.

Su alcuni di questi punti c'è stata una convergenza molto ampia, su altri i sindacati hanno eccepito. Montezemolo ha plaudito su tutto, compreso il punto sui bassi salari e sui loro effetti negativi nella crescita del Paese.

Una sola osservazione sull'importante adesione di Montezemolo al Draghi-pensiero: il presidente della Fiat poteva risparmiarsi di portare come esempio ai governi la vittoria della Ferrari. Anche Berlusconi si avvale spesso delle Coppe vinte dal Milan come strumento di pressione politica. Speravamo che Luca Montezemolo fosse consapevole che usare lo sport come asset politico è populismo allo stato puro.

Ma torniamo al Draghi-pensiero. Ci sono molti altri elementi e cifre che il Governatore ha offerto alla riflessione pubblica. Per esempio: il reddito dei giovani è migliore di quello dell'età di mezzo (33-55 anni); tuttavia i salari d'ingresso italiani sono nettamente più bassi degli altri Paesi europei presi come riferimento; gran parte dell'aumento della produttività, peraltro insufficiente, è stata assorbita dai profitti anziché dai salari.

Ma il punto più importante riguarda la precarietà. Draghi punta ad una maggiore flessibilità del lavoro ma aggiunge che la precarietà è la causa principale della insufficiente crescita dei consumi. Sì alla flessibilità dunque, ma no alla precarietà: sembra il ricalco del programma di Prodi, anche se Draghi non l'ha detto.

Infine: dove trovare le risorse per rendere praticabile il Draghi-pensiero? Il Governatore esclude ovviamente ulteriori aumenti della tassazione e raccomanda un taglio radicale della spesa, ma in un altro punto del suo discorso afferma che un'altra delle cause che frenano la domanda interna deriva dal timore di tagli di spesa che diminuiscano i servizi fondamentali e l'occupazione. Allora dove bisogna tagliare? Se le tante esortazioni fossero anche confortate da indicazioni concrete di terapia ciò sarebbe utile alla discussione che, fatta in questo modo, finisce per somigliare a invocazioni a Padre Pio e a miracolosi santi consimili.

Post scriptum. Sono stato ieri al funerale di Pietro Scoppola svoltosi nella chiesa di Cristo Re a Roma in viale Mazzini. C'erano almeno mille persone, intente e commosse. Officiava il cardinal Silvestrini insieme a tutto il capitolo della parrocchia.

Non entravo in quella chiesa da settant'anni; la frequentai da bambino e mentre assistevo alla messa funebre e pensavo all'amico scomparso sono anche riandato a quegli anni così lontani della mia infanzia devota.

La folla assiepata nei banchi e nelle navate rappresentava un campione autentico di cattolici ferventi, animati dalla fede e da un impegno civile ammirevole. Lo dico perché conosco molti di loro e so di quell'impegno e di quella fede responsabile e non bigotta.

Si sono tutti comunicati. L'intera folla presente ha preso l'eucaristia. Più d'uno si è avvicinato a me per dirmi che preferiscono frequentare i non credenti sinceri piuttosto che i falsi cattolici.

Il cardinale ha parlato benissimo e così pure, con brevi parole, il parroco della chiesa. Figli e nipoti del morto si sono avvicendati con letture e pensieri appropriati e commossi.

Ho avuto la sensazione di stare con persone perbene, moralmente, intellettualmente e professionalmente perbene. Da non credente mi ci sono trovato a mio agio. Mi hanno dato fiducia nel futuro. Per questo rinnovo il mio ringraziamento alla memoria di Pietro Scoppola, sicuro che i cattolici presenti in quella chiesa e i tanti simili a loro proseguano l'opera sua.

(da la Repubblica, 28 ottobre 2007)

La paura di nascere vecchi

ILVO DIAMANTI

L'assemblea costituente del Partito Democratico, ieri, è stata attraversata dalla voglia, diffusa e palpabile, di comunicare - a se stessa in primo luogo - il senso della discontinuità. Dall'ansia di rinnovamento. E dal timore, speculare, di finire impigliati nei fili del passato. Lo ha chiarito, da subito, Walter Veltroni, confessando che il vero problema, oggi, è "come evitare di versare il vino nuovo in otri vecchi". Per scongiurare un pericolo percepito, nel Pd: nascere vecchio.

Nel padiglione della fiera, a Rho, sede della manifestazione, i giovani delegati, peraltro, erano molti. Intervistati, ripresi, coccolati. In contrasto, però, con l'immagine lasciata dalle primarie. Caratterizzate da una partecipazione massiccia, superiore a ogni attesa. E da un profilo generazionale piuttosto maturo e, anzi, un po' vecchiotto. Come hanno visto quanti si sono fermati ai seggi; anzitutto gli scrutatori. Come ha sottolineato il sondaggio Demos-Eurisko presentato domenica scorsa su Repubblica. Il quale rileva che solo il 12% degli elettori alle primarie ha meno di 30 anni, mentre il 40% ne ha più di 64.

Ciò delinea uno squilibrio piuttosto rilevante rispetto alla società. Visto che la componente compresa fra 18 e 29 anni costituisce il 19% dell'elettorato, quella con oltre 64 anni il 22%. Dunque, anche se neonato, il Pd rivela un volto un po' attempato.

Naturalmente, questo aspetto è determinato, almeno in parte, dal "metodo" scelto per generare il Pd. Le primarie. Un rito collettivo. Ma, pur sempre, "individuale" e "istituzionale". Una "elezione", molto "impegnativa", condizionata da una scelta di valore e dal pagamento di una quota. Alla quale, però, ci si reca "da soli", oppure con i familiari. Mentre i giovani prediligono le "mobilitazioni comunitarie". Scosse da forti onde emotive. Centrate su fini e, spesso, nemici precisi. Dove si sta e/o si marcia insieme.

Le primarie, invece, rispecchiano il rito del voto come "norma". Come "abitudine democratica". Stentiamo a rinunciarvi io e mio padre, ma non emozionano i nostri figli. Tuttavia, (come ha sottolineato Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera) la bassa partecipazione giovanile non significa, automaticamente, che i più giovani non voteranno per il Pd. (Spesso si vota senza passione: "contro" invece che "per").

Ma i sondaggi suggeriscono qualche difficoltà anche sul piano elettorale. Tra i giovani con meno di trent'anni (sondaggio Demos-Eurisko, 16-18 ottobre), infatti, il Pd è stimato circa 4 punti percentuali sotto la media generale. Fra coloro che hanno più di 64 anni, invece, è quasi 10 punti sopra la media. Dunque, il "nuovo" Pd stenta, per ora, ad attirare i giovani.

C'è, tuttavia, da osservare che il problema non riguarda solo il Pd, ma il centrosinistra nell'insieme. Infatti, negli ultimi mesi, i giovani sembrano avere smarrito la strada che conduce a sinistra. Contrariamente a quanto è avvenuto dalla fine degli anni Novanta e fino alle elezioni del 2006 (come emerge dalla ricerca di Itanes: Dov'è la vittoria?, Il Mulino, 2006). Allora i giovani si erano spostati a sinistra, soprattutto gli studenti. Per motivi che abbiamo indicato altre volte. Li possiamo riassumere nella ripresa di grandi movimenti di protesta su temi di rilevanza universale, ma con un impatto particolarmente forte sulle generazioni più giovani. La guerra e l'insicurezza globale, l'occupazione, la scuola.

Da qualche mese, però, il voto giovanile non si orienta più a sinistra, nella stessa misura degli ultimi anni. Neanche fra gli studenti. A stento, pareggia con quello di destra. La stessa Rifondazione Comunista, fra i più giovani, è poco sopra la media generale. Nell'insieme, fra gli elettori con meno di 25 anni che un anno fa avevano votato per l'Unione, meno di 6 su 10, oggi riconfermerebbero la loro scelta (Demos-Eurisko, ottobre 2007).

Un cambiamento tanto rapido e profondo richiede, comunque, due precisazioni.
a) Non sono cambiati i giovani. Come mostrano numerose indagini, anche molto recenti, essi esprimono un livello di impegno nelle attività politiche, nel volontariato, nelle iniziative sui temi del territorio e dell'ambiente; e, inoltre, un grado di partecipazione a manifestazioni collettive (di protesta e di solidarietà) assai più elevati rispetto al resto della popolazione.

b) Gli orientamenti di voto dei giovani restano, comunque, instabili. E, piuttosto che defluire a destra, prendono la strada del "non voto" e del distacco.
Dunque: i giovani non hanno imboccato il "riflusso" individualista. Non si sono spostati a destra, dopo aver votato, per un decennio, a sinistra. Ma sono sicuramente più incerti e disincantati di prima.

Su questo cambiamento di umore influiscono, a nostro avviso, soprattutto tre ragioni.
1. La critica contro la classe politica e i partiti. "Antipolitica", si direbbe oggi. Anche se è vero il contrario, visti i tassi di interesse e di partecipazione politica che esprimono. È, però, vero che l'insofferenza verso i partiti e le istituzioni ha raggiunto l'intensità più elevata proprio fra i più giovani. I quali, non a caso, dimostrano l'adesione più ampia e convinta per le iniziative promosse, sulla rete e nelle piazze, da Beppe Grillo (ancora: Demos-Eurisko, settembre 2007; ma indicazioni analoghe vengono fornite da sondaggi condotti da Ipsos e Ispo). Un'insofferenza espressa soprattutto dalla base di centrosinistra, che ha colpito, in primo luogo, il governo dell'Unione (e alcune figure, come Mastella, in particolare).

2. Il senso di incertezza, alimentato dalle politiche del governo ma soprattutto dalle polemiche nel centrosinistra. L'enfasi sulla flessibilità del lavoro e, al tempo stesso, la difficoltà di riformare le pensioni hanno comunicato l'idea di un welfare costruito senza cura per i giovani. Certi che il loro lavoro sarà incerto. Almeno quanto il futuro.

3. La distanza dal linguaggio e dai temi della vita quotidiana che anima la comunicazione politica, soprattutto del centrosinistra. Anche la campagna delle primarie, ingessata dai "vecchi" partiti. Al centro ma soprattutto in periferia. Come poteva emozionare i giovani? Se lo stesso Enrico Letta, "giovane" democratico per definizione, più che ai giovani invisibili, che si sentono "precari" più che "flessibili", sembrava rivolgersi alla platea dei "giovani" imprenditori riuniti a Capri?

Da ciò due considerazioni finali, del tutto provvisorie.
La prima riguarda i giovani. Non sono "bamboccioni". Al contrario: sono perlopiù "autonomi", anche quando risiedono con i genitori e si appoggiano alla famiglia. Costretti a vivere in un mondo incerto e instabile, sfruttano tutte le risorse disponibili. In un rapporto di reciproca utilità e dipendenza, con gli adulti.

D'altronde, sono al centro delle strategie di consumo e di marketing; ma anche delle attenzioni e delle preoccupazioni dei genitori. Che non li lasciano crescere. Ed essi accettano (o fingono) di non crescere. Se fa loro comodo. Questa condizione di "centralità" comunicativa e affettiva li rende più reattivi verso quanti li ignorano. Oppure non parlano la loro lingua. La politica li ignora. Il centrosinistra, oggi, non parla la loro lingua. La seconda - e conclusiva - considerazione riguarda il Pd. Veltroni ha ragione quando sostiene che non è possibile "tenere il vino nuovo dentro botti vecchie". Ma solo in parte. La verità è che botti troppo vecchie impediscono al vino nuovo di entrare. E corrompono il poco che entra. Per cui, la questione vera non è costruire otri nuovi. Ma eliminarli.

Fuor di metafora: costruire un partito senza militanti, senza iscritti e senza sezioni. A differenza di quanto ha sostenuto ieri Michele Salvati, riteniamo che non ce ne sia bisogno. La militanza, la partecipazione, le associazioni: in questa società iperpolitica, sono fin troppo diffuse. Il partito deve solo intercettarle. Non può essere un "otre", un recipiente chiuso. Ma un "luogo" aperto, dai confini mobili. Non un partito "personale", ma un partito "personalizzato". Affollato di persone. Che selezioni "persone" capaci di governare. Persone. Che non abbiano il futuro dietro alle spalle. Solo così potrà parlare ai giovani ed essere ascoltato. Solo così potrà liberarsi del passato.


(da la Repubblica, 28 ottobre 2007)

mercoledì 24 ottobre 2007

Veltroni e i coordinatori Pd: in Assemblea ci sarà dibattito

Si è tenuta oggi la riunione tra Walter Veltroni, Dario Franceschini e i tre coordinatori del Pd Maurizio Migliavacca, Antonello Soro e Mario Barbi per fare il punto sull'organizzazione della prima assemblea costituente del Partito democratico, fissata per sabato 27 ottobre a Milano. Si è decisa una scaletta di massima e dopo le richieste arrivate da piu' parti, in particolare da Rosy Bindi, si e' convenuto di modificare il programma iniziale, che prevedeva solo due interventi (quello di Veltroni e quello di Romano Prodi), per dare spazio anche al dibattito.

"Certo - si spiega - non potranno prendere la parola tutti i 2800 delegati, il dibattito andrà gestito". Veltroni, Franceschini e i coordinatori hanno discusso anche delle tre commissioni che insidieranno sabato per preparare il Manifesto, lo Statuto e il Codice etico. Dovrebbero essere composte ciascuna di un centinaio di membri, rappresentativi dell'intera assemblea. A Prodi, in quanto presidente del Pd, dovrebbe spettare il compito, tra l'altro, di nominare un ufficio di presidenza per la gestione dell'assemblea di sabato.

Per ulteriori informazioni di carattere logistico
www.ulivo.it

martedì 23 ottobre 2007

Pd: consensi al 29%

Secondo un sondaggio de la Repubblica in crescita i consensi per il nuovo partito
di MATTEO TONELLI, tratto da www.repubblica.it

ROMA - Un partito che si attesta al 29%, che è percepito come un centrosinistra che, però, guarda al centro. Con un leader che può contare su un gradimento personale che lo porterebbe a battere Silvio Berlusconi. E' questa la fotografia del Partito democratico che arriva dal sondaggio Ipr Marketing realizzato per Repubblica.it (il 19 ottobre). Un dato che, seppure inferiore alla somma dei voti dei disciolti Ds e Margherita, è in crescita rispetto ad aprile (allora era il 26,5 %). Non solo, stando alle cifre, c'è un'area dell'8% che, pur non essendo certa di votare il Pd, dice di essere pronta a prendere in considerazione l'eventualità.

Gli elettori. Lo zoccolo duro di coloro che, certamente, dichiarano il loro voto per il Pd, è del 18%. Dato che va aggiunto a quell'11% di chi, pur non sentendosi "fidelizzato", oggi voterebbe il partito di Veltroni. Totale: 29%. Poi c'è l'area degli indecisi. Quell'8% che raggruppa chi prende in considerazione l'ipotesi di votare il Pd, pur non essendo certo, oggi, di farlo. E che se, tradotto in preferenze, potrebbe far toccare al partito percentuali significative a livello elettorale. Un 37% che i dati indicano come il potenziale elettorale del Pd.

I flussi. Come ampiamente prevedibile il grosso dei voti per il Pd arriva dall'area dell'Ulivo. E' quello il serbatoio maggiore. Dal centrodestra e dall'estrema sinistra arrivano solo briciole: 3% da Forza Italia, 1% dai Comunisti italiani, ancora meno da Rifondazione e dall'Italia dei valori. Significativo, invece, quell'8% che uscirebbe dall'area dell'astensione per votare il Pd.

L'identikit dell'elettore. La prima distinzione che va fatta è tra gli elettori certi e quelli potenziali. Tra chi non ha dubbi e chi li ha, pur prendendo seriamente in considerazione l'ipotesi di dare la propria preferenza a Veltroni. L'identikit dei "certi" vede una percentuale di donne e uomini quasi simile (49% contro 51%), un'età che vede i giovani tra i 18 e i 34 anni al 20%, e gli elettori da 35 anni in avanti al 40%. Per quanto riguarda l'area di residenza in testa ci sono il centro e le isole (39%), poi il nord, area elettoralmente difficile per il centrosinistra (37%), infine il centro al 24%. Tra gli elettori potenziali cambiano alcune percentuali ma non il senso complessivo. Da notare l'aumento dei giovani da 18 a 34 anni (34%) e una percentuale maggiore di donne elettrici (53%). Ma forse il dato più interessante è quel 44% di elettori del nord che potrebbero votare il Pd. Un fatto non da poco viste le grandi difficoltà riscontrate dal centrosinistra in quella zona del Paese.

Come si posiziona. In questo caso ci aiuta il raffronto con un precedente sondaggio del 31 maggio 2007. La percezione del posizionamento del Pd è quello di una formazione di centrosinistra, che, però, tende al centro. La percentuale passa dal 37% al 46%. Cala invece la quota di chi vede il Pd orientato a sinistra (dal 14% al 10%), cresce, ma di poco, la percentuale di pensa ad un centrosinistra orientato a sinistra (dal 22% al 25%). In calo anche chi lo immagina come un partito di centro: dal 17% al 10%. Praticamente nulle le percentuali che lo associano al centrodestra. Solo il 5% infine non sa dire come collocarlo.

La fiducia. Sciolti i partiti, creatone uno nuovo, resta la questione del retaggio del passato. Tema che investe sia i Ds che la Margherita. In entrambi i casi la percetuale di fiducia che ispira il Pd è, nella maggioranza dei casi, la stessa che ispiravano la Quercia (53%) e la Margherita (46%). Da segnalare che se si limita la rilevazione agli elettori "certi", la percentale di chi avverte più fiducia nel Pd rispetto ai due disciolti partiti, sale fino a sfiorare il 70%.

Veltroni e gli scontri diretti. Le cifre parlano di un Walter Veltroni con un'indubbia capacità attrattiva. Stando al sondaggio nello scontro diretto tra Veltroni e i leader del centrodestra, il sindaco di Roma ne esce più che bene. L'unico a pareggiare (50% a 50%) è il leader di An Gianfranco Fini, mentre sia Silvio Berlusconi (52% a 48%) sia Pierferdinando Casini (55% a 45%) cedono il passo.

lunedì 22 ottobre 2007

La società è rock, la politica si adegui e cambi tutto

Di seguito l'intervista a Walter Veltroni pubblicata in "Sotto i venti", inserto del Riformista a cura della redazione di Zainet.


La nuova stagione. Questo l’ambizioso motto con il quale il Partito democratico si presenta agli elettori fin dai suoi primi vagiti. Il neonato partito si prefigge come assoluta priorità il compito di innovare e rinnovare. Riformare, per “scrollare la vecchiaia” dalle spalle di un’Italia zavorrata, che deve riguadagnare terreno rispetto agli altri paesi europei, alcuni dei quali l’hanno già distaccata di molte lunghezze, mentre altri ancora la seminano con passo sempre più spedito. L’entusiasmo di Veltroni è contagioso, lo dimostrano in modo evidente i 3,4 milini di elettori accorsi alle urne per le elezioni primarie del 14 ottobre. Il neosegretario è stato nominato con una legittimazione "dal basso" sentita e partecipata oltre ogni aspettativa, nonostante l'annullamento del 10% delle schede elettorali e le polemiche sollevate dla celebre programma satirico Striscia La notizia circa l'assenza di controlli ai seggi e la possibilità di votare ripetutamente senza nessun impedimento.
Veltroni parla programmaticamente della serenità che manca nel nostro paese, della degenerazione della politica della polis in politica da salotto televisivo, parla di una gioventù piena di proposte che mette paura e viene arginata e chetata con tutti i mezzi, parla di problemi concreti e di possibilità di soluzione. Noi lo abbiamo intervistato subito priam del voto, in occasione di un incontro con i giovani, quei giovani dai quali promette di voler partire per dare nuova linfa alla politica in crisi.
Da noi ragazzi dice di trarre ogni volta "la conferma di quello che so conoscendovi, cioè che avete una gran voglia di fare qualcosa per questo paese, che fa arrabbiare la politica che non trova le parole giuste per entrare in comunicazione con questo fortissimo desiderio che voi avete di fare qualcosa per questo paese.
Gli abbiamo chiesto il perchè del grande divario esistente tra la politica dei giovani, ferivda e attiva, e la politica dei palazzi, che è paludosa e immobile da troppo tempo: "Ci sono tante persone che a Montecitorio lavorano, si impegnano, hanno grandi competenze, hanno voglia di fare, e ce ne sono altre invece che non hanno la stessa voglia. Quello che in questo momento è avvertito da tutti come insopportabile è l’incapacità di decidere. Il sistema istituzionale e politico di questo paese non è in grado di decidere nulla e ciò accresce nei cittadini la sensazione che tutto sia autoreferenziale, che manchi la voglia di fare quelle innovazioni – ridurre il numero dei parlamentari, avere una sola camera - sulle quali tutti dicono di essere d’accordo. Io penso che il Pd dovrà servire a scrollare questa situazione».
Sull'eventualità di un confronto politico futuro ra lui e Beppe Grillo, e in generale sul fenomeno mediatico del "grillismo", commenta: "Il problema è che bisogna trovare delle soluzioni positive. Non basta dire di volta in volta ciò che non va. E aggiungo, bisogna farlo a riparo dal grande circo della comunicazione, in questo il Presidente Napolitano ha perfettamente ragione, recuperando una cosa che la politica ha perso, cioè la capacità di condividere i problemi reali della gente. Perché un urlo è un urlo, la soluzione di un problema reale è un’altra cosa. Dire quello che non va è una cosa che è giusto fare, trovare la soluzione è più complicato. Perchè si urla ma si dice ‘No alla Tav’, invece questo paese ne ha bisogno, come necessita di tante altre cose importanti, qualificanti, innovatrici".
Abbiamo parlato con Veltroni anche della discussa questione del voto allargato ai sedicenni e gli abbiamo chiesto quale sarà l'incidenza reale della componente dei giovanissimi all'interno del Partito Democratico. Ci dice:
«dal punto di vista dei diritti avranno quelli di tutti, cioè potranno votare ed essere eletti. Spero inoltre che i sedicenni votino anche alle elezioni amministrative. Mi ricordo la discussione che ci fu quando si passò dal voto a ventuno anni a quello a diciotto, sembrava che crollasse il mondo. Adesso c'è una grandissima responsabilizzazione, che noi dobbimo incoraggiare, sapere di poter partecipare alla vita pubblica aiuta a sedici anni aiuta i ragazzi a responsabilizzarsi. È anche una sfida, è uno stimolo positivo, fa parte di quell'idea che ho di fidarsi dei giovani. Questo paese è vecchio, ma ha tutte le condizioni di talento, di capacità, di intelligenza, di forza, di bellezza per poter essere almeno come la Spagna. Un tempo la Spagna era molto dietro di noi, adesso è molto avanti; dobbiamo raggiungerla rapidamente, soprattutto in fatto di energia, di determinazione, di capacità di innovazione, di linguaggio, di parole, di strumenti, di modo di decidere. Ma è possibile che noi ancora ci mettiamo anni per approvare una legge, quando magari ciò che approviamo è già cambiato da quando abbiamo deciso di fare la legge? La società è veloce, la politica è lenta. Non voglio fare Celentano dicendo “rock” e “lento”, ma è così, più o meno».
Suonano in sottofondo le critiche allarmate di chi parla di demagogia, di qualunquismo, di buonismo, che senza dubbio invitano a riflettere e a ponderare le proprie scelte con attenzione. Ma se fosse proprio di buone idee, di vie di mezzo ragionate tra il categorico bianco o nero di ideali ormai logori quello di cui l’Italia ha bisogno ora? Su Veltroni grava la responsabilità di un fortissimo investimento di fiducia. E l'augurio per lui e l'Italia è che sappia gestirne il carico nel migliore dei modi.

Francesca Giuliani

giovedì 18 ottobre 2007

Tra Liceo e Politica

Le parole di Ludovica Marsella, la più giovane fra tutti i delegati all'Assemblea Costituente del prossimo 27 ottobre
Leggi in allegato l'intervista di Repubblica a Ludovica Marsella, liceale e ballerina classica, nata il 4 luglio 1991 e delegata nazionale alla Costituente del PD.
Clicca quì per vedere l'intervista completa
(da www.lanuovastagione.it)

lunedì 15 ottobre 2007

Veltroni: la gente ci ha chiesto innovazione e cambiamento

«La cosa più importante di quanto accaduto ieri la voglio riassumere sinteticamente: la gente è uscita di casa, di domenica non per andare a votare contro qualcuno ma per qualcosa». E’ un Walter Veltroni visibilmente soddisfatto e rilassato quello che ha parlato per la prima volta da segretario in pectore del Partito democratico ai giornalisti al Tempio di Adriano a piazza di Pietra a Roma. Al suo fianco Dario Franceschini, vicesegretario designato. Pochi minuti prima, non lontano da qui, a piazza Santi Apostoli, i tre coordinatori del comitato promotore delle primarie ufficializzavano le cifre riguardanti l’affluenza: 3 milioni e 400mila persone ieri hanno affollato i seggi predisposti in tutta la penisola.

Veltroni, forte di questa cifra, e del consenso raccolto dalla sua candidatura, (che si sta attestando oltre il 75%) parla davanti ad una schiera di giornalisti, fotografi e video-operatori. In realtà parla a tutto il Paese, non solo a coloro che ieri hanno scelto di essere coinvolti direttamente recandosi a votare. Il sindaco di Roma, la cui carica di segretario del Pd verrà ratificata dall’Assemblea costituente nei prossimi giorni, non solo ha sottolineato con quale forza sia emersa la richiesta di partecipazione della gente, ma anche posto l’accento sulla necessità di buona politica che interessa a tutti gli italiani.

Analizzando le questioni che il voto di ieri ha sollevato, Veltroni lancia ancora un messaggio chiaro sulle linee direttrici lungo le quali l’azione del partito si debba muovere. Il neo-segretario individua sette punti principali. Il primo è «l’invecchiamento che il voto di ieri ha inferto a tutto il sistema politico italiano». Veltroni individua, in tal senso, due parole-chiave, «innovazione e coesione, intesa non come unità, ma come condivisione nell’affrontare i problemi che affliggono il Paese». La seconda questione è quella riguardante il rapporto tra partito e governo. Il messaggio di Veltroni è chiaro: «il Pd sosterrà il governo, che sta facendo molto bene, per tutta la legislatura». Riguardo a questo tema, l’auspicio è che «entro otto mesi il Parlamento possa portare a termine il pacchetto di riforme istituzionale, depositato in commissione Affari costituzionali, che sia in grado di cambiare faccia al sistema politico nazionale».

Il terzo punto riguarda la questione, tanto in voga, dell’antipolitica. Secondo Veltroni, «il voto di ieri è solo in parte una risposta all’antipolitica, solo in parte contro l’antipolitica. In realtà – sottolinea il sindaco – è anche un voto che chiede discontinuità rispetto al vecchio modo di fare politica». Un calcio all’antipolitica per cambiare la politica, dunque. Quarta questione: l’identità del partito. A questo proposito, Veltroni respinge l’accusa di dualismo con il governo: «Il Pd – dice – nasce delineando un programma e un profilo preciso, come per esempio stiamo cercando di fare con i temi dell’ambiente, della sicurezza, delle tasse, del nuovo patto generazionale». Il quinto punto è l’inquadramento del partito a livello continentale. Veltroni non cita il Pse, ma afferma che il Pd avrà «nell’Europa il suo punto di riferimento naturale» per lavorare insieme ai partner europei «per i diritti, per la pace, contro le logiche di riarmo».

La sesta considerazione di Veltroni coincide con la necessità di fare dell’aiuto alle «nuove generazioni» una bussola per il nuovo partito, e della «lotta alla precarietà del lavoro e della vita una frontiera obbligata». Infine, settimo punto, un messaggio riservato agli osservatori politici. «Non meravigliatevi – spiega – se a volte il Partito democratico sembrerà prendere delle posizioni eterodosse, perché le posizioni che si identificano su due pacchetti opposti tra loro sono un retaggio del passato». Veltroni sottolinea che «i problemi che la società porta con sé oggi chiedono una sintesi che sia veramente nuova. Il Pd si farà portatore di questo nuovo lessico, mantenendo come centrali nella realizzazione del suo impianto riformista – sottolinea – i temi legati all’ambiente».

Una sorta di dichiarazione d’intenti, quella del leader del nuovo partito, che punta sul cambiamento e l’innovazione, su un’ambizione maggioritaria e l’azione modernizzatrice. «Il Partito democratico – conclude Veltroni – nasce per dire addio alla stagione in cui ci si è concentrati solo sull’alternativa tra Berlusconi e la sinistra, e si è mancato di dare il là alla modernizzazione del Paese».

venerdì 28 settembre 2007

Società civile: è davvero meglio del Palazzo?

Presentiamo di seguito tre articoli pubblicati su la Repubblica di oggi che approfondiscono il concetto di SOCIETà CIVILE, termine che ha avuto una posizione centrale nel processo costituente del Partito Democratico.
Gli autori degli articoli, PAUL GINSBORG, FILIPPO CECCARELLI E CARLO GALLI, cercano di definirne meglio il significato.
Per leggere gli articoli clicca quì.

venerdì 21 settembre 2007

Partito democratico, 5 cose da fare subito. Taglio di poltrone e via i partiti dalla Rai

di MARIO PIRANI
Non prendiamoci in giro. La nascita del Partito democratico non sta maturando attraverso una "fusione calda", malgrado le speranze suscitate e che erano sembrate coagularsi in due momenti: i congressi di scioglimento di Ds -Margherita e la presentazione della candidatura Veltroni. Dopo quei passaggi ci si attendeva un rilancio che aprisse subito le porte del costituendo partito a forze sociali fin qui mortificate, a intelligenze creative fin qui messe ai margini, a spiriti liberi pronti a impegnarsi. La delusione è, per contro, palpabile. Il timore che la perigliosa iniziativa sfuggisse di mano alle due nomenclature di riferimento ha prodotto un macchinario selettivo barocco e antidemocratico. Il suo funzionamento è difficilmente comprensibile, di nessuna attrattiva, dissuasivo nei confronti di ogni desiderio di partecipazione. Lo spezzatino delle liste per circoscrizione, la duplicazione delle medesime (più di una per candidato), la designazione delle candidature ad opera di piccoli gruppi di vertice addetti alla bisogna, il rifiuto di permettere le preferenze, così da controllare e gestire rigidamente l'ordine di ogni lista dei designati, (ricalcando l'aborrita - a parole - legge elettorale vigente): questi gli aspetti salienti del marchingegno messo in piedi. Ben altro sarebbe stato l'effetto se si fosse votato in tutta Italia per i soli candidati alla leadership (Veltroni, Letta, Bindi, ecc.) attraverso un voto cui partecipassero per internet o per suffragio al seggio tutti i militanti e i simpatizzanti che lo volessero (le tecnologie computerizzate di controllo impediscono ormai le duplicazioni), versando una quota e sottoscrivendo un breve impegno di adesione. L'aver inoltre applicato alla Costituente un federalismo spinto, accompagnando all'elezione del segretario nazionale, quella dei leader regionali, oltre ad aver scatenato in ogni capoluogo una lotta personale asperrima, ha tracciato i binari di un partito localistico, prefigurando una federazione di micropotentati, di feudi di signori delle tessere e dei voti, restii a far propri i valori di una politica nazionale e ancor meno europea. Alla partizione ideologica di partenza si assommerà, così, quella regionalistica.
Tutto questo potrebbe forse non incidere più che tanto se i candidati di maggior rilievo e, in primo luogo, Walter Veltroni riuscissero a svincolarsi dai lacci che lo spirito di conservazione dei partiti d'origine hanno loro imposto e che forse hanno accettato con troppa rassegnazione, subendo oggi le leggi del compromesso, per far meglio domani. Sol che questa non è una fase che consenta una lunga marcia per arrivare a medio termine a secernere sapientemente una nuova classe dirigente, capace in un prossimo futuro non meglio definito, di dirigere il nuovo partito dei riformisti, a vocazione maggioritaria, come ha detto Veltroni e, cioè, in grado di governare, scegliendo maggioranze coerenti. La fase attuale è, per contro, di rapido e rovinoso smottamento del rapporto di fiducia tra la democrazia rappresentativa e masse crescenti di cittadini, molti dei quali o sfiduciati o preda di ogni ventata demagogica e distruttiva. Potremmo attardarci ad analizzarne le cause, capire quali sono state le realizzazioni sottovalutate e gli errori non perdonati del governo Prodi (il maggiore dei quali, a mio avviso, è stato quello di sostenere ad ogni occasione che l'elettorato è destinato a capire domani, forse fra qualche anno, la giustezza delle cose di cui oggi si lamenta). Potremmo, inoltre, elencare le ancor più gravi pecche in cui sono incorsi i partiti (culminate da ultimo in un impeto suicida nell'apertura delle porte del Festival dell'Unità all'appello squadristico di Beppe Grillo per la distruzione di ogni partito presente e futuro, tranne ovviamente il suo). Qui ed ora urge, però, ben altro che acute disamine politologiche. Urge prendere atto di una situazione, confermata da tutti i sondaggi (vedi quello di Diamanti del 18 us) e descritta su queste colonne da Eugenio Scalfari con uno dei più drammatici pezzi che abbia mai concepito in tutta la sua vita e di cui sottoscrivo ogni parola ("Il popolo cerca il giudizio universale", Repubblica, 16 us). Aggiungo, però, che se oggi "c'è un crescente rifiuto di questa politica, di questi partiti, di questi uomini politici" e se gli appelli di Beppe Grillo danneggiano solo la sinistra e fanno ben contento Berlusconi "che da 15 anni fa politica in nome dell'antipolitica", ebbene questo desolante quadro è il frutto non di una mutazione antropologica che ha reso il popolo di sinistra refrattario ai valori della politica ma della delusione amarissima per il degrado etico, la pochezza, la litigiosità, l'incoerenza, la presunzione, l'arroganza, la proterva occupazione del suolo pubblico di ogni ordine, grado e qualità a cui una parte notevole dei ceti dirigenti dell'arco governativo si è lasciata andare in questi anni, senza incontrare resistenza e denuncia da parte di chi dissentiva tacendo. Questo ha sovente anche cancellato la percezione della differenza, nell'azione pratica e persino nelle parole, tra destra e sinistra. Eppur tuttavia c'è ancora una possibilità reale di riscossa. Non è affatto detto che almeno la metà degli italiani, che ha votato centro sinistra nelle ultime elezioni politiche e amministrative, sia perduta per sempre o stia passando armi e bagagli nel campo di Berlusconi e Beppe Grillo, uniti sotto spoglie diverse in un unico disegno. C'è un dato nell'ultimo sondaggio Demos-Eurisko, su cui Ilvo Diamanti si sofferma ("Repubblica" 16 settembre), che indica chiaramente uno spazio di ripresa, laddove afferma: "La candidatura di Walter Veltroni ha smosso le acque stagnanti in cui rischiava di affondare il Pd... Insieme a Fini egli appare ancora il leader politico più amato dagli italiani..... L'elettorato potenziale del Pd è molto più ampio di quello attuale. Le stime oggi gli attribuiscono poco più del 26% dei voti ma la quota di coloro che ritengono possibile votarlo è molto più ampia. Intorno al 44%. La componente dei "democratici indecisi" è costituita in larga misura (40%) da elettori incerti "se" e "per chi" votare... sulla soglia che separa speranza e delusione". Ecco, dunque, il campo dove Veltroni dovrebbe giocare la sua partita. Con rapidità, spregiudicatezza, coraggio. Affrontando la questione di fondo che lui non ha fin qui eluso ma non ne ha fatto, certo, il centro della sua campagna: la crisi attuale della politica e la necessità urgente di rifondarne il messaggio. Se quello di Beppe Grillo ha raccolto 300.000 adesioni, l'assai meno urlato Decalogo (mi scuso per la citazione) da me proposto il 24 maggio us su questo giornale ne ha raccolte 150.000. I nostri lettori, ma credo la stragrande maggioranza degli italiani al di fuori della "casta", volevano e vogliono dei segni concreti di cambiamento: 1) Un governo snello ed efficiente, di 15 ministri, di cui 7 o 8 donne e 45 sottosegretari, non di più; 2) Un taglio drastico dei privilegi e degli stipendi del pletorico ceto che vive sulla politica: più di mille parlamentari, diecine di migliaia di consiglieri regionali, comunali, provinciali, delle comunità montane e quant'altro; 3) Un disboscamento delle migliaia e migliaia di società a partecipazione pubblica, degli assessorati inutili, delle sovvenzioni clientelari; 4) La fine della lottizzazione delle cariche negli enti pubblici, nelle Asl, nei ministeri; 5) L'estromissione dei partiti dalla Rai. Basterebbe questo per rompere il clima di delusione e rassegnazione, recuperando, quanto meno, incerti e indecisi. Veltroni, certo, potrebbe obbiettare che queste cose non dipendono ancora da lui. E' vero, ma è pur possibile, come ha suggerito Piero Fassino all'ultima Festa dell'Unità, vincolare nel corso della prossima Costituente ad alcune decisioni, regole e norme di comportamento tutti i dirigenti e gli esponenti istituzionali del nuovo Partito, raccogliere e rispondere - è sempre Fassino che parla - "all'indignazione nel vedere il merito, la capacità, la fatica dello studio travolti da concorsi truccati, appalti guidati, assunzioni di favore". Veltroni non può e non deve proporsi affatto di scalzare Prodi. Deve, però, convincersi che nella sua campagna per la leadership del nuovo Partito gioca contemporaneamente una partita futura, di cui oggi gli italiani debbono percepire le caratteristiche essenziali e credibili. Per questo deve dire ora che tipo di governo ha in mente. Deve proporre ora un tavolo Stato-Regioni che riporti i governi locali a dimensioni anche di spesa compatibili con la pubblica decenza. Deve dire ora come vuol mettere fine alla lottizzazione. Ed, infine, dovrebbe anche aggiornare schemi invecchiati di comunicazione. Ad esempio le cose che ha detto e scritto negli ultimi mesi sono ricche di idee e proposte giuste. Avvolte, però, in articoli troppo lunghi, in discorsi troppo alti ancorché accattivanti, redatti con un linguaggio non sempre adatto a tradursi in un messaggio immediato, secco, comprensibile a tutti. Mi dicono abbia aperto un blog. Ne faccia ampio uso e tramite internet entri in contatto, il più possibile, con quanti non può incontrare direttamente. Lasci perdere le defatiganti mediazioni. Non c'è più il tempo. Si rivolga direttamente alla gente. Gli è ancora possibile farsi ascoltare.

(da la Repubblica, 20 settembre 2007)

sabato 1 settembre 2007

PD: un nuovo patto di cittadinanza

Veltroni e il comunista
di Alfredo Reichlin

La novità e l'importanza di ciò che è avvenuto con la discesa in campo di Walter Veltroni consiste essenzialmente -mi pare- nel fatto che la costruzione di un partito davvero nuovo (cioè diverso da quelli attuali) ha compiuto un passo avanti serio. Non siamo più alla sommatoria di vecchi ceti politici. Veltroni ha cominciato a definire la fisionomia del nuovo partito. Una forza che si candida a governare una società moderna molto complessa e frammentata come quella italiana uscendo dai vecchi schemi dentro e indicando le condizioni possibili perché questo paese possa ricominciare a «stare insieme». Non c'entrano niente i buoni sentimenti. C'entra la consapevolezza di quali sfide stanno davanti alla nostra patria, e quindi, della necessità di un nuovo patto di cittadinanza. Un patto «inclusivo» non solo tra generazioni e interessi diversi ma tale da far fronte a quella sorta di «secessione silenziosa» del Nord dal Mezzogiorno che si finge di non vedere. Veltroni non si è nascosto affatto la gravità della crisi e la drammaticità dei problemi irrisolti. È in risposta ad essi che ha delineato una idea del futuro del paese che non è astratto perché è sorretta dalle costruzione di una nuova soggettività politica e culturale: quel tipo di forza che qualcuno di noi si era azzardato (da tempo) a chiamare «un partito nazionale».

Perchè così - e solo così - si giustifica la nascita di un nuovo partito all'interno del quale la sinistra non cancelli la sua grande storia. Una forza nuova per una situazione storica nuova. Così come accadde, del resto, con la nascita dei partiti operai al passaggio dall'agricoltura all'industria oppure come si rispose al tramonto dell'età liberale e all'avvento della società di massa: da sinistra con Roosevelt e la socialdemocrazia e da destra con un partito totalitario di massa.

Insomma, io penso questo. E qui sta la ragione del mio giudizio così positivo su ciò che è avvenuto a Torino. Ma è proprio questo evento, proprio per il suo essere così carico di nuovi sviluppi e nuove aspettative, che non chiude ma apre nuove riflessioni. Esso chiama le culture politiche (a cominciare da quella da cui vengo) a confrontarsi non solo con le persone ma con la sostanza della crisi italiana, che è non solo economica e sociale ma si configura ormai come crisi della democrazia repubblicana. C'è, infatti, una ragione se la costruzione di un partito democratico è una impresa così difficile e niente affatto moderata. La ragione è che si scontra con forze molto potenti. Pietro Scoppola ha ragione quando ci invita a chiederci se (cito) «nella storia del paese non ci siano motivi profondi di resistenza se non di incompatibilità rispetto al progetto del partito democratico». E risponde che la formula dei «riformismi che si incontrano» è superficiale perché non dà conto del problema di fondo, tuttora irrisolto, che è la sostanziale incompiutezza (cito ancora) «del processo fondativo della democrazia nel nostro paese. Perché l'amara novità è questa: quel processo, del quale sono state poste le promesse con la Costituzione, non è stato compiuto né a livello etico, né a livello di cittadinanza; né a livello istituzionale».

È evidente. Qui sta la missione del partito democratico. Una missione difficile sia per le ragioni accennate e che stanno dentro la storia italiana, ma che è resa più difficile per l'impatto che il processo reale della globalizzazione sta avendo su un sistema politico debole come quello italiano. È di questo che si parla troppo poco. E io continuo a stupirmi quando leggo che anche uomini di grande intelligenza sostengono che il problema del partito democratico consiste essenzialmente nella scelta tra i fautori del mercato (il filone liberal) e i fautori del vecchio intervento statale (il filone socialdemocratico). Ma dove vivono?

È perfino ovvio e in sé non è affatto un male, (anzi, in sé, è un portato del progresso) il fatto che nel mondo globale lo Stato ha perso la sovranità assoluta e che quindi non è più il solo garante della vita sociale politica e culturale di un popolo-nazione. Ma il grande problema è che questo vuoto non è stato riempito. E non è stato riempito non perché i politici si intromettono troppo nelle «logiche» di mercato ma perché lo Stato ha perso anche il monopolio della politica. Non è poco. Significa che non è più lui il garante della sovranità popolare cioè dei diritti uguali di cittadinanza. E ciò perché sono entrati sulla scena (come sappiamo) altri poteri molto potenti, non solo economici e finanziari, ma anche scientifici, mediatici, culturali. Io non apprezzo affatto, e tanto meno giustifico le derive oligarchiche e autoreferenziali della politica, ma credo che dopotutto sta anche qui la ragione della sua crisi così profonda. Più la politica conta meno nel senso che non è in grado di prendere le «grandi decisioni», quelle che riguardano il destino della «polis», più la politica si attacca al sottopotere e al sottogoverno. E così la democrazia si svuota e aumenta il distacco dalla gente. E si crea quel circolo vizioso per cui a una elites auto referenziale e poco rappresentativa si contrappone una società che si frantuma e si ribella al comando politico.

Se questa analisi è corretta anche quei miei amici che rappresentano il filone «liberal» dovrebbero cominciare a pensare che la vecchia dicotomia tra Stato e mercato non ha più il significato di una volta. La socialdemocrazia non c'entra. È del tutto evidente (come è stato detto e stradetto) che lo squilibrio crescente tra il «cosmopolitismo» dell'economia e il «localismo» della politica ha travolto le basi del vecchio compromesso socialdemocratico. Ed è anche vero che il neo-liberismo non solo ha vinto, ha stravinto ed è diventato da anni la ideologia dominante. Ma posso cominciare a chiedermi se le cose, le cose del mondo nuovo, lo strapotere della finanza mondiale, il sommarsi di ingiustizie abissali con la formazione di una nuova oligarchia straricca, posso cominciare a ragionare senza tabù anche sul rapporto tra mercato e sfera pubblica e sociale? Attenzione, non sul mercato come strumento essenziale dello scambio economico, evidentemente, ma come pretesa di essere il presupposto di ogni sistema sociale e di rappresentare la risposta ai bisogni di senso, di nuove ragioni dello stare insieme a fronte del venir meno delle vecchie appartenenze Veltroni ha ragione nel sottolineare la necessità di creare nuove risorse se vogliamo produrre servizi e capitali sociale (la vera povertà italiana). E queste risorse non le produce lo Stato. Per cui diventa sacrosanto tutto il discorso contro le rendite, i parassitismi, i protezionismi, ecc. E quello sulle liberalizzazioni. Ma Veltroni ha collocato queste affermazioni in un quadro molto più ampio e molto più moderno. Ha reso evidente che se la crescita non si accompagna alla creazione di nuove istituzioni (politiche, sociali, nuove relazioni sociali, capitale sociale) capaci di consentire a una società di individui di diventare cittadini, persone, cioè non solo consumatori ma creatori di se stessi, capaci di esprimere nuove capacità, noi non riusciremo mai a evitare le nuove emarginazione e le nuove miserie. Così la società si disgrega. I dati sull'apprendimento scolastico al Nord e al Sud sono impressionanti. Non è questione di soldi. I soldi ci sono. Mancano fattori sociali e culturali (le cose che fanno diversa l'Emilia dalla Calabria) che non possiamo affidare alle sole logiche di mercato.

Spero che si capirà il senso di queste mie osservazioni. Esse nascono dall'assillo di chi da tempo è dominato dalla necessità di uscire da vecchie visioni, e pensa che il problema di una nuova politica economica è creare un circolo virtuoso tra crescita e coesione sociale, tra politica ed economia. Abbiamo bisogno di un nuovo pensiero e una rivoluzione culturale. E torna in me, vecchio comunista italiano, il senso profondo della eresia gramsciana, l'idea della rivoluzione italiana intesa prima di tutto come rivoluzione intellettuale e morale. Io sogno un nuovo partito il quale faccia leva con più decisione di quanto non abbia fatto la vecchia sinistra classista sul fatto che l'avvento della cosiddetta economia post-industriale e della società dell'informazione richiede e, al tempo stesso, esalta risorse di tipo nuovo, non solo materiali: risorse umane, saper fare, cultura, creatività, senza di che la tecnologia non serve a niente; risorse organizzative senza di che è impossibile gestire sistemi complessi; risorse ambientali e relative alla qualità sociale; e quindi - di conseguenza - beni cosiddetti «relazionali», cioè rapporti sociali e istituzioni capaci di produrre fiducia, cooperazione tra pubblico e privato. Insomma un nuovo ethos civile, essendo questo il solo modo per dare ai «poveri» la possibilità di non essere messi ai margini. Far emergere, in alternativa alla ricetta neo-liberista, l'altra possibilità insita nel post-industriale, e cioè il fatto che una nuova coesione sociale può diventare lo strumento più efficace per competere.

Forse non è una grande scoperta. Ma a me sembra il solo modo per la sinistra di dare un fondamento strategico alla sua iniziativa, intendendo la strategia come la capacità di spostare i rapporti di forza e di intervenire dentro i processi reali, volgendo a proprio vantaggio la dinamica oggettiva dei cambiamenti che si producono. Abbiamo bisogno di una nuova analisi politica per capire se nella realtà effettuale, e non nei nostri desideri, sono aperte delle contraddizioni e delle linee di conflitto sulle quali si possa innestare una grande iniziativa politica.
(da l' Unità, 03-07-2007)

domenica 26 agosto 2007

Tutti schierati in curva, attratti dalle bandiere più che dai progetti

Un articolo che dovrebbe essere di lezione a tutti coloro che sono appassionati di politica. Per capire che cosa ci sia dietro la loro partecipazione: la voglia di costruire un "noi" o quella di opporsi e combattere un "loro".
Certo, lo sappiamo, è molto più facile costruire l'identità e soprattutto quella politica individuando un nemico; qualificandosi diversi da un nemico, i legami e le convinzioni di un gruppo vengono rinsaldati e rinforzati.
Quando, però, l'opporsi ad un concorrente politico diventa l'unica ragione della partecipazione, questo significa che la politica non funziona più.
Quando la politica si riduce solo a questo, è difficile parlare di partecipazione.
L'articolo può essere di lezione soprattutto a chi si avvicina e si sta appasionando alla politica, per non commettere l'errore fatto in passato di chiudersi dietro cieche ed ottuse ideologie.

Per questo il Partito Democratico dovrà, per essere veramente democratico e "nuovo", dar vita ad un partito, ad una passione, ad una partecipazione non tanto basato su un "noi" opposto ad un "loro", ma su un "noi" che si fondi, prima di tutto, su una convinzione, su idee, su un programma comune.

"...gli italiani, oggi, si accostano alla politica esattamente come al calcio. Sono faziosi. Partigiani. Attratti dalle bandiere più che dai progetti. Mossi dalle emozioni più che dalle valutazioni. Poco interessati alla qualità del gioco o dei "contenuti". Non c'è spazio per i moderati, per il fair play. Per il rispetto reciproco, per il dialogo. Tutti schierati in curva. Che diamine: siamo un popolo di tifosi".
(Comitato promotore PD Fucecchio)



Ecco l'articolo pubblicato su la Repubblica del 24 agosto 2007:

Un paese in curva



di ILVO DIAMANTI


Un anno dopo Calciopoli, nonostante i processi, le retrocessioni. Nonostante le penalizzazioni e gli scudetti ri-assegnati. Nonostante l'epurazione di arbitri e dirigenti. Nonostante che la Juve sia finita in B e l'Inter abbia vinto da padrona il campionato. Nulla pare cambiato. Tutto come prima. Anzi: peggio di prima. Lo pensano quasi nove italiani su dieci, secondo l'indagine di Demos per la Repubblica. Mentre otto su dieci ritengono che, nel frattempo, siano peggiorate le condizioni di sicurezza degli stadi. Che andare a vedere una partita di calcio sia rischioso. E non hanno torto, viste le decisioni relative alla partita di Genova, domenica prossima.


Ma tutto ciò non sembra aver raffreddato la passione. Sembra, all'opposto, averla accesa maggiormente. Rispetto a due anni fa, infatti, la cerchia dei tifosi si è allargata, seppur di poco. E' cresciuta, soprattutto, la componente più coinvolta. Quella che ama e odia, al tempo stesso. Infatti, oltre la metà dei tifosi non si limita a esprimere una passione. Indica un bersaglio sul quale scaricare il proprio risentimento. Sotto questo profilo, peraltro, qualcosa è cambiato, nell'ultimo anno.
Prima, c'era un solo "nemico". La Vecchia Signora. La più amata ma anche la più detestata dagli italiani. Mentre oggi, nella classifica delle antipatie, è stata affiancata dall'Inter. Destino di chi vince. Soprattutto quando i principali avversari sono stati penalizzati o esclusi. Non a caso l'insofferenza reciproca fra tifosi bianconeri e nerazzurri è salita vertiginosamente. Come quella fra milanisti e interisti. Gli scandali e i sospetti, quindi, non hanno abbassato l'attenzione verso il calcio. Né, a maggior ragione, hanno stemperato le divisioni, ridimensionato le appartenenze.
Il fango e la polvere, invece di offuscare le bandiere, le hanno rese più luminose e importanti. Quasi che il calcio fosse diventato un campo nel quale si mette in gioco la propria identità. Nel quale si affermano e si contrappongono le appartenenze personali e sociali. Dove i sospetti e le difficoltà, invece di generare delusione e distacco, suscitano ulteriore coinvolgimento. Così, insieme al tifo, crescono sentimento e risentimento. Ma anche l'indifferenza alle regole. Visto che l'importante è vincere, o comunque far perdere il "nemico", ad ogni costo e con ogni mezzo. Altro che partecipare. (Quanti juventini si sono scoperti romanisti in occasione della finale di Supercoppa...).
Le analogie con la politica, per questo, sono molte ed evidenti. In Italia - e non da oggi - si vota "contro", molto più che "per". Le "identità antagoniste" contano quanto (e forse più di) quelle "protagoniste". Si vota e si è "contro" Berlusconi, prima che "per" il centro-sinistra. Viceversa, si vota e si è "contro" la sinistra e la minaccia comunista, prima ancora che "per" la destra. E poi, Calciopoli, anche linguisticamente, suona a imitazione di Tangentopoli: la madre di tutti gli scandali che hanno scosso, negli ultimi vent'anni, l'Italia.
Ma, come nel calcio, neppure in politica gli scandali hanno allontanato i cittadini. La partecipazione, alle elezioni legislative, si è confermata elevatissima. Le campagne elettorali hanno riscosso tanta attenzione da garantire alle trasmissioni politiche indici di ascolto degni, appunto, del campionato di calcio. E poi, i cittadini si dicono disgustati dalla politica e si scagliano contro i privilegi della "casta" dei politici; e, ancora, denunciano la perdita di significato di ogni etichetta e sostengono che destra e sinistra "uguali sono". Ma poi scendono in piazza, per "protestare". Per denunciare. Esprimono un'elevata "passione" (anti)politica.
Tuttavia, le analogie fra calcio e politica non sono casuali. Visto che il leader dell'opposizione e del primo partito italiano (in precedenza premier) è anche presidente del Milan. I suoi militanti si chiamano "azzurri". Esattamente come i giocatori della Nazionale. Mentre i politici, di ogni parte, i vecchi come i nuovi, parlano di calcio in televisione, vanno allo stadio, esibiscono la loro "fede" calcistica. E poi, la politica - come il calcio - si "fa" e si segue in televisione.
Calcio e politica: si rispecchiano. Si incrociano. Si scambiano reciprocamente i vizi, ancor più delle virtù. Così gli italiani, oggi, si accostano alla politica esattamente come al calcio. Sono faziosi. Partigiani. Attratti dalle bandiere più che dai progetti. Mossi dalle emozioni più che dalle valutazioni. Poco interessati alla qualità del gioco o dei "contenuti". Non c'è spazio per i moderati, per il fair play. Per il rispetto reciproco, per il dialogo. Tutti schierati in curva. Che diamine: siamo un popolo di tifosi.

sabato 25 agosto 2007

BIPOLARISMO

di Marco Filippeschi
(tratto da AA.VV., Partito democratico. Le parole chiave. Roma, Editori Riuniti, 2007)
Il bipolarismo è l’habitat politico dei riformisti italiani, una precondizione irrinunciabile per dare finalmente al nostro paese una politica forte ed efficace. Si può dimostrare come, purtroppo, soprattutto a causa della rinuncia al sistema elettorale maggioritario, con l’abbandono dei collegi uninominali, il bipolarismo italiano, già evidentemente difettoso, sia stato gravemente indebolito in alcuni dei suoi capisaldi essenziali e come il sistema stia scivolando pericolosamente su un piano inclinato generando una sempre più grave delegittimazione della politica. In questa situazione, il progetto del Partito democratico va controcorrente ed è perciò ancor più necessario, a patto che proponga con forza l’obiettivo di una solida strutturazione bipolare del sistema politico italiano e coerenti dinamiche democratiche e organizzative del nuovo partito.
Nella crisi della politica

L’Italia non è il solo paese dell’Occidente a versare in difficoltà di legittimazione della politica. L’erosione è dovuta a fattori diversi. Innanzi tutto alla limitatezza delle politiche nazionali di fronte agli scenari globali, a poteri e a dinamiche sociali e comunicative che non conoscono confini, ad una crisi del sistema di sviluppo e degli ecosistemi che non hanno confini. Poi, come ci ricorda Zygmunt Bauman, in Europa lo spiazzamento è dovuto alla crisi dello Stato sociale, nato negli anni della grande depressione come progetto «di libertà dalla paura». In molti paesi l’elettorato è diviso in due parti pressoché uguali e le elezioni si vincono sul filo di frazioni percentuali. Spesso sono emerse forze anomale, antisistema o ai limiti dei sistemi: integraliste, xenofobe, etnoregionaliste. Mentre sono entrati in scena partiti e leader populisti, non solo nelle fragili democrazie dell’Est europeo, che si sono fatti forti dei sentimenti antipartito. La crisi del modello sociale europeo, che si somma alla percezione degli effetti delle migrazioni e alla minaccia del terrorismo internazionale, divide, crea ansie, insicurezze e così allarga i confini di una politica dell’emotività. E spinge la politica a creare risposte a quel livello, a rilegittimarsi investendo sulla paura, alimentandola, a ridefinirsi cercando nuovi fondamenti reazionari. Tutto ciò chiede più politica e un discorso pubblico nuovo, aderente alle sfide inedite, lontano dagli schemi del passato. Chiede una politica forte, una democrazia efficace, capace di decidere rapidamente, con leadership che impersonino positivamente l’attesa di cambiamento. In altri paesi le istituzioni e i partiti, per quanto più deboli e criticati che in passato, rappresentano riferimenti saldi agli occhi dei cittadini. Anche i partiti, quelli più grandi, sono ancora percepiti quali istituzioni stabili e indiscutibili nella loro funzione da una vasta maggioranza dell’elettorato. Una funzione che si è modificata nel tempo: partiti con più forte comando centralizzato e sostegno pubblico, minore radicamento territoriale e sociale, che mantengono un sostanziale monopolio del reclutamento della classe dirigente politica e del governo ai diversi livelli. Partiti meno legati al loro popolo, ma con una funzione che resta fondamentale, anche per contrastare estremismi e populismi.In un quadro già problematico, l’Italia presenta molte specificità che indicano di una crisi più grave della politica e della funzione dei partiti. Le nostre patologie si sommano alle tare storiche che non abbiamo risolto e che via via si sono accumulate: fragilità alla nascita, infeudamento progressivo e perdita d’efficienza dello Stato; dualismo territoriale; presenza delle mafie; enorme debito pubblico; crollo della natalità; sproporzionata dipendenza energetica; capitalismo fragile e spesso protetto dalla competizione. E poi, dagli anni settanta: crisi di legittimazione e di funzionamento delle istituzioni politiche, decadimento dei partiti politici.L’Italia vive un rischio di declino anche per il suo bipolarismo debole, per l’estrema frammentazione dei partiti, per i costi esorbitanti delle rendite di posizione del ceto politico e per l’inefficienza della politica. Viene facile accostare questa situazione, a fronte dei cambiamenti globali che possono marginalizzare il ruolo del nostro paese, a quella denunciata da Niccolò Machiavelli nel Principe, di un’Italia frammentata in tanti piccoli stati, spesso rivali e fatalmente soggiogati da potenze straniere. Tante immagini si sovrappongono e chiedono oggi alla politica lo stesso coraggio rivoluzionario del segretario fiorentino.La crisi del circuito istituzioni-partiti-società è un carattere determinante della crisi italiana. Perciò si deve dire chiaro che non possiamo accontentarci della politica com’è. Che serve un riformismo dal basso anche su questo versante. Altrimenti perché stupirsi della privatizzazione del potere e dell’insofferenza alle regole che Berlusconi rappresenta? Si alimenteranno ancora l’antipolitica e il qualunquismo che gonfiano i consensi di una destra che al governo ha fallito, sommandosi agli egoismi, ai corporativismi e a tante arretratezze. Ancora, perché stupirsi del sequestro di Abu Omar e della vicenda Telecom-Sismi o del caso sconcertante di spionaggio politico-economico emerso nella vicenda Telecom-Corriere della Sera? Una politica debole non garantisce la sicurezza e l’autorevolezza del nostro paese nei rapporti con gli alleati, né tiene a bada le cordate di potere che condizionano pesantemente la politica. Una politica vulnerabile può invece garantire interessi privati che assorbono beni collettivi e dissipano potenzialità industriali e che possono mettere in vendita anche la sicurezza del paese. Per questo tra lo sforzo per liberare energie, per ricreare crescita economica e dinamismo sociale, e quello per una rilegittimazione della politica, con riforme elettorali e istituzionali e con quell’autoriforma della politica che chiamiamo partito democratico, c’è un legame molto stretto.


Un partito grande
C’è dunque una missione nazionale per un grande partito riformista e democratico. Per questo serve un partito vero, un partito grande: per chiudere una lunghissima transizione, che non per caso è innanzi tutto una transizione istituzionale incompiuta, che oggi espone al rischio di un riflusso in logiche trasformiste. Serve un «redentore», si può dire, citando Niccolò Machiavelli e la chiusa del Principe. La ragione della scelta per il partito democratico sta in primo luogo in questa motivazione di fondo, in ciò che di più urgente dobbiamo fare per futuro dell’Italia e per fortificare la nostra democrazia. Una motivazione che è preliminare alle ragioni di carattere storico o ai disegni identitari e programmatici.Un partito grande, inoltre, è un partito che ha una visione generale e laica della politica e della società e rappresenta meglio l’interesse nazionale, che è trasversale alle appartenenze sociali, e l’interesse dei più deboli, che non può essere tutelato da partiti piccoli. E’ un segno di arretratezza e di smarrimento l’idea che a sinistra si contrappone all’Ulivo di un ritorno al lavorismo, ad un’idea di partiti di appartenenza, necessariamente piccoli: per la rappresentanza esclusiva dei lavoratori dipendenti, ad esempio, e così via. Una visione lontana dalla storia del riformismo di sinistra in questo paese, di quello comunista e socialista, oltre che estranea all’interclassismo cattolico. Ma anche molto distante dalla grande tradizione sindacale confederale della Cgil, come ci ha insegnato tante volte Bruno Trentin. Che oggi si debba ridiscutere di questo è un segno di tempi non felici. L’Ulivo è anche la garanzia di un riformismo che possa rappresentare forti e strutturati legami sociali nel lavoro dipendente, nel lavoro autonomo, nel lavoro d’impresa.


L’Ulivo e il bipolarismo
Il risultato elettorale del 9 aprile e quelli delle elezioni precedenti dove si è presentata la lista unitaria dell’Ulivo sono significativi anche perché ottenuti con sistemi elettorali che non favorivano le aggregazioni. Per l’Ulivo, hanno valso soprattutto ragioni dovute al bisogno di unità, di semplificazione, di razionalità dell’offerta politica in senso bipolare. Il voto all’Ulivo è stato in sé un voto critico e utile: critico della debolezza della politica – e della prepotenza di partiti piccoli, le ricerche ci dicono che i cittadini leggono così, in modo estremamente critico, il cambio della legge elettorale – e utile a valorizzare un’occasione di unità e ad indicare un rimedio, una via d’uscita. Ecco che anche questo consenso si può vedere come riflesso positivo del bipolarismo, come aspettativa e disponibilità, largamente trasversale agli schieramenti, per un sistema dell’alternanza maturo e solido. Una grande risorsa, questa, se sarà valorizzata dalle forze politiche che hanno interesse a migliorare e stabilizzare un forte sistema bipolare. Oppure un grande potenziale di delusione se questa aspettativa sarà frustrata, con un inevitabile slittamento a destra, in senso populista, delle disponibilità dell’elettorato. Dunque, serve non dimenticare mai che la fragilità del bipolarismo italiano e la debolezza della politica non sono di sinistra e non portano a sinistra.La crisi traumatica della prima Repubblica ha prodotto il bipolarismo. Questo si può dire con sicurezza: la durata dei governi si è allungata di molto, l’alternanza di governo è stata messa ripetutamente alla prova, la concezione bipolare della politica è diventata patrimonio di una larghissima e trasversale maggioranza degli italiani. Il bipolarismo è diventato la regola a tutti i livelli, dal governo dei comuni alla politica nazionale. Detto questo, i rischi di un riflusso sono evidenti come i punti deboli in partenza.L’esperienza delle prime elezioni politiche fatte col sistema maggioritario portò a stringere alleanze più ampie possibili, anche a spese della coerenza politicoprogrammatica delle coalizioni. Includendo nelle coalizioni anche forze con comportamenti o programmi antisitema. Date le nuove regole elettorali, la spregiudicatezza inclusiva di Berlusconi già dal 1994 ha creato, insieme, il bipolarismo e una sua grave distorsione. Così, soprattutto per il campo del centrosinistra, si è innescata una dinamica che, a dispetto di ogni positiva razionalità, ha ostacolato la costruzione di partiti più grandi. Il bipolarismo dall’inizio non è riuscito a diminuire il numero dei partiti: fino all’abbandono dei collegi uninominali in Parlamento erano presenti 9-10 partiti. Gli stessi numeri della prima Repubblica, in sostanza, ma senza due partiti grandi che per consensi si staccassero nettamente dagli altri, come furono la Dc e il Pci. Per la pressione dei partiti più piccoli, i regolamenti delle camere, in particolare riguardo alla costituzione e al finanziamento dei gruppi parlamentari, hanno incentivato la frammentazione. All’opposto delle regole ferree antiframmentazione che vigono, per esempio, nel sempre citato sistema tedesco. Poi, con la nuova legge elettorale, i partiti più grandi non sono cresciuti e i partiti presenti in Parlamento si sono moltiplicati e ormai, nell’ultima crisi di governo, si sono contati ventidue gruppi consultati dal Capo dello Stato, ai quali corrispondono venticinque partiti presenti in Parlamento.Alla proliferazione dei partiti ha concorso anche una frammentazione di carattere locale, soprattutto nelle elezioni comunali, per la convenienza ad avere in campo più liste e più candidati in corsa, a contendersi le preferenze. La fragilità dei partiti, sommatasi a regole elettorali assai permissive, che premiano le coalizioni ma non disincentivano la frammentazione, ha dato spazio a liste civiche e al riemergere di micropartiti. La centralità del meccanismo della preferenza ha portato un’ulteriore segmentazione: di corrente, di categoria, di provenienza regionale e di clientela, soprattutto dove questa degenerazione è costitutiva dei sistemi politici locali e si sta aggravando.Tutto ciò ha accresciuto e legittimato ad ogni livello l’ansia di visibilità dei partiti e dunque la loro litigiosità, anche intracoalizionale, e nell’insieme ha complicato e reso ancora meno digeribili i messaggi politici. Là dove, vista la dimensione dei problemi da risolvere, sarebbe invece necessario un fortissimo impatto di alcuni chiari messaggi riformatori. E’ cronaca politica di tutti i giorni: ben rappresentata dai pastoni politici dei telegiornali o dalle cronache locali dei quotidiani. Mentre in altri programmi si vedono crude cronache che rappresentano il disfacimento d’istituzioni fondamentali e l’assenza o l’affanno della politica. Si tratta dunque di messaggi che contraddicono e svuotano il nostro bipolarismo, rendendone sempre più labili le virtù.


Le riforme che servono
I rischi cui espone l’eccessiva frammentazione politica italiana sono evidentissimi. Frammentazione della politica e frammentazione sociale s’inseguono in una spirale perversa. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha usato parole forti. Ha chiesto un’intesa tra i poli per le riforme, per «istituzioni più riconosciute e più forti», per un accordo su «meccanismi elettorali che rendano più lineare e sicura la formazione delle maggioranze chiamate a governare il paese». Ha chiesto «democrazia e trasparenza nella vita dei partiti». E’ il segno di una preoccupazione che dev’essere condivisa. Senza un’efficace riforma della legge elettorale e alcune essenziali riforme della Costituzione non ci sottrarremo al rischio del crollo di un sistema politico debole, delegittimato, con partiti da anni al minimo di credibilità, all’ultimo posto nelle graduatorie di popolarità. Infatti, non c’è il solo scenario, pure inaccettabile, di un lento scivolamento nel declino, con la politica che possa continuare a fare i suoi giochi di parole nel proprio recinto sempre più stretto. Un nuovo crollo, dopo la crisi della prima Repubblica, non porterebbe di certo a sinistra, porterebbe l’Italia più a destra.Serve la riforma del Titolo V, nel senso di un federalismo solidale. Ma non si può essere ancora disattenti alla crisi del Parlamento: serve soprattutto il rilancio del monocameralismo, o del bicameralismo differenziato, con una riduzione complessiva del numero dei parlamentari e con l’istituzione del Senato delle Regioni e delle Autonomie per cui si possa prevedere l’estensione del diritto di voto fino ai diciottenni e l’adozione di un sistema elettorale specifico. E’ utile il rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio, dentro la cornice definita dall’esito referendum costituzionale, per accrescere l’autorevolezza e la stabilità dell’esecutivo. Serve un’armonizzazione delle scadenze elettorali, per evitare la campagna elettorale permanente che vive il nostro paese.Il varco aperto dalla legge elettorale approvata in extremis dalla destra va chiuso, approvando presto una nuova legge, con collegi uninominali e doppio turno, sistema adeguato a risolvere i problemi di rappresentanza e di governabilità del paese, e comunque con un sistema che migliori il bipolarismo – di coalizione o di partito – e consenta maggiore coesione politica delle maggioranze che sorreggono i governi. Un sistema che riduca la frammentazione politica, garantisca il radicamento territoriale degli eletti e il riequilibrio della rappresentanza di genere. Il varco va chiuso e perciò bisogna anche essere aperti alla promozione del referendum abrogativo della legge elettorale: un’iniziativa che se decollerà con la forza necessaria potrà fare pressione per l’approvazione di una buona legge elettorale, in un percorso parlamentare già molto difficile.Dunque l’Ulivo deve avere un suo disegno compiuto, leggibile, comunicabile, non contraddittorio col progetto del Partito democratico, su cui costruire alleanze nella società e suscitare una spinta dal basso, per poi poter condurre da una posizione solida il confronto in Parlamento e le mediazioni che saranno necessarie. Servono riforme che riconcilino la politica con i cittadini. Dobbiamo chiedere a tutti, anche ai grandi partiti della destra, di ragionare con questo respiro. E servono riforme anche per evitare tentazioni neocentriste. Il fatto che oggi si discuta di partito unico della destra con la prospettiva di un’unificazione tra Forza Italia, aderente al Ppe, e Alleanza Nazionale, ancora esterna al Ppe, la dice lunga. Nella scorsa legislatura se ne discuteva per i due partiti italiani del Ppe: Forza Italia e Cdu, come semplificazione possibile, frutto delle dinamiche del bipolarismo e della legge elettorale maggioritaria. Dinamiche che oggi, evidentemente, si sono invertite per il varco proporzionalista apertosi nel sistema. Con una leadership centrista che, dopo aver ottenuto dai suoi alleati la rinuncia al sistema maggioritario, oggi chiede apertamente un affrancamento dal bipolarismo.
Superare la frammentazione, fare partiti grandi e aperti
Quella della frammentazione è una patologia politica italiana molto grave. E’ un record europeo, come ha dimostrato Roberto D’Alimonte: siamo primi per numero dei partiti e ultimi per dimensione dei partiti. La tabella di confronto tra i paesi dell’Unione Europea elaborata da Antonio Floridia dà un quadro chiarissimo. La somma dei due maggiori partiti in Spagna fa l’80%, in Germania il 70, in Gran Bretagna il 68, in Francia – dove i partiti sono in difficoltà – il 58 per cento. Oggi invece, Forza Italia e Ds fanno appena il 40 per cento dei voti. Il partito socialista di Zapatero da solo ha il 43.3% e la Spagna vive il forte dinamismo che vediamo. Ma, fino agli anni ottanta, col sistema già in crisi, anche in Italia la somma dei due partiti più grandi, Dc e Pci, superava il 60 per cento. Mentre alla metà degli anni settanta superava ampiamente il 70 per cento. Dunque, non esiste una maledizione italiana della frammentazione: siamo in una crisi molto grave, ma si deve e si può fare un’inversione di rotta.Il nanismo dei partiti è una delle ragioni di debolezza della politica, di fronte alle dinamiche globali e a quelle economico-sociali che già mettono in discussione le forme e la forza della rappresentanza e l’efficacia della democrazia. Con partiti piccoli si aggrava il deficit democratico dei partiti denunciato da Giorgio Napolitano. Ben oltre il caso estremo di Forza Italia, dove vige un leaderismo assoluto e anomalo – ma ci sono anche noti casi di leaderismo mignon o di partito familiare. Uso le parole di Piero Ignazi: «il fossato tra vertice e base si è dilatato a dismisura, rendendo più efficace la leadership ma minando alla radice l’essenza democratica dei partiti. Il deficit di legittimità dei partiti dipende anche e soprattutto da questo distacco che ha proiettato su di loro un’immagine verticistica e personalistica, in contrasto con il mito razionale della democrazia partecipativa che i partiti incarnano». E’ questa la prima ragione che rende necessarie e ha fatto sperimentare nuove regole partecipative, quali le primarie, per un positiva personalizzazione nei partiti e, in molti partiti europei, il coinvolgimento diretto degli iscritti nelle decisioni essenziali. Sono in calo anche le adesioni ai partiti. I Ds, con i loro seicentomila iscritti, sono il secondo partito europeo, dietro alla Spd (ma la Germania ha 90 milioni di abitanti e la Spd il 34 per cento dei voti). E’ un partito non immune da difetti, ma è di certo un fenomeno positivo, anche perché si tratta d’iscritti veri. La sua vita interna è trasparente e lo stesso non si può dire per molti degli altri partiti. Poi ci sono le statistiche mortificanti sulla rappresentanza di genere in politica: queste parlano da sole e pongono una questione democratica, che va ben oltre i problemi della vita interna ai partiti. Le donne sono sottorappresentate soprattutto là dove si sceglie col voto di preferenza, che si è dimostrato nei fatti un arma micidiale di discriminazione. Mentre lo stesso non si può dire per le primarie: perché in queste, invece, si possono già far valere regole d’autodisciplina e quote per la rappresentanza di genere. Si può aggiungere, guardando all’esperienza, che i partiti grandi sono quelli dov’è più facile il ricambio generazionale – ho presente i progressi fatti in questi anni dai Ds nelle regioni rosse – e l’apertura a forze esterne: un partito grande come il Pci poteva permettersi di eleggere i molti parlamentari della Sinistra indipendente. Oggi invece, con partiti piccoli, c’è molta maggiore chiusura.Dunque servono partiti più grandi e aperti. Mentre vediamo che ci sono poteri che puntano su una politica debole, subalterna, a sovranità limitata. Su partiti piccoli e verticisti, leggeri e manovrabili. Il Partito democratico va pensato invece un partito protagonista di una nuova democrazia dei partiti, popolare e partecipato. Composto da iscritti e non fatto di tessere distribuite a notabili locali e da questi a gruppi di clienti da schierare in qualche congresso. Fatto di uomini e di donne, che abbia in programma di colmare lo squilibrio della rappresentanza di genere, anche con l’adozione di quote di rappresentanza. Che non sia strutturato in modi elitari, né plebiscitari. Che possa anche avvalersi di nuove e trasparenti regole democratiche, quali le primarie. Un partito che sia forte dell’uso della rete, delle esperienze di democrazia partecipativa, di un rapporto pattizio con sindacati, associazioni e movimenti. Che riconosca in modo più vincolante il ruolo di partito degli eletti, per non accrescere ancora la distanza tra le sue rappresentanze e la sua base associativa. Un partito promotore di una legge per la democrazia nei partiti, per la partecipazione politica e per il finanziamento della politica, che interpreti l’articolo 49 della Costituzione, e di provvedimenti seri e incisivi, non demagogici, per ridurre i costi impropri della politica.


La scelta
Non si devono subire le critiche e gli scetticismi per la difficoltà dell’impresa. Si deve chiedere a chi non condivide l’obiettivo del Partito democratico o a chi ancora non se la sente se la politica italiana possa restare così com’è. Se serva o no anche una strategia d’aggregazione bipolare coraggiosa, per ridurre la frammentazione, per fare partiti grandi, insieme a buone riforme elettorali e costituzionali. A questa domanda non si potrà sfuggire. Si può rispondere no, e arrendersi così alla realtà di partiti che, quando sono grandi com’è quello dei Ds, hanno il 17.5% per cento dei voti, tutelare solo il marchio o glorificare coalizioni sempre più frantumate. Pur sapendo che in queste condizioni non si governa nessun altro grande paese, non si fanno le riforme che servono, non si rimedierà ad una società sempre più ingiusta e priva di orizzonti per chi ha bisogno di essere non ostacolato o d’essere accompagnato per costruirsi il futuro. Se invece alla domanda si risponde, responsabilmente: «sì, servono partiti più grandi», allora si dev’essere conseguenti e scegliere. Perché è più realistico affrontare un passaggio difficile, com’è la costruzione di un nuovo partito, provarci davvero, che sperare nella rigenerazione spontanea di un sistema dei partiti che è giunto ad un punto limite. Si potrebbe capire chi dicesse senza infingimenti: «sono d’accordo, però perseguo un altro progetto, quello di unificare i Ds con la sinistra alternativa, con Rifondazione comunista». Si dovrebbe riconoscere valore ad un altro processo d’aggregazione, che contemplasse la scelta di regole per il bipolarismo e contro la frammentazione, che non fosse un altro investimento furbesco su una rendita di posizione. Di più. Alle stesse condizioni, credo che dovremo essere noi dell’Ulivo, costruendo un partito grande, riformista e non moderato, a sfidare la galassia della sinistra radicale e a dirle: «provate anche voi a costruire qualcosa di più grande». Dunque, c’è da scegliere: galleggiare nella crisi della politica, mantenendo i partiti come sono, o aggregare forze per superarla. E’ di fronte a queste scelte che proprio il tema della collocazione internazionale dà conto della fragilità delle alternative al progetto dell’Ulivo. Assunto l’habitat politico del bipolarismo e l’obiettivo di creare partiti grandi come necessità storica, la scelta di unire i Ds e la Margherita, altre forze e movimenti di tradizione ed impegno democratico, per i Ds è chiaramente alternativa a quella di un’improbabile unificazione con Rifondazione comunista, per collocarsi in Europa con Oskar Lafontaine e dunque fuori dal Pse. E per la Margherita è di certo alternativa ad una riunificazione dell’area politica ex democristiana in una formazione neocentrista. Questo è l’incrocio ineludibile cui siamo di fronte. E qui sta l’onere della chiarezza, della proposta e della scelta, che vale per tutti.


Marco Filippeschi è Deputato de L’Ulivo alla seconda legislatura, fa parte della Segreteria nazionale dei Ds ed è responsabile del Dipartimento Istituzioni del partito.

QUATTRO LIBRI CONSIGLIATI:
N. Machiavelli, Il Principe, Torino, Einaudi, 1962.
M. L. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime. Alle radici della politica italiana, Bologna, Il Mulino, 1994.
S. Ceccanti, S. Vassallo, Come chiudere la transizione. Cambiamento, apprendimento e adattamento nel sistema politico italiano, Bologna, Il Mulino, 2004.
M. Mucchetti, Il baco del Corriere, Milano, Feltrinelli, 2006.