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“Siamo giunti fin qui, si è aperta una porta di speranza”. Sono parole che vengono dalla rivoluzione democratica inglese, e mi paiono particolarmente adatte a una giornata straordinaria come questa.
Siamo giunti fin qui: finalmente i democratici, i riformisti italiani, hanno un partito. Una casa comune, grande e nuova. Il sogno che insieme a Romano Prodi abbiamo coltivato per così tanto tempo è diventato realtà. Con lui abbiamo camminato a lungo. Sono stati anni di lavoro e di impegno, che hanno messo alla prova la nostra fiducia e la nostra tenacia.
Ora si è aperta una porta, una porta di speranza: non solo per noi, ma per l’Italia, che da troppo tempo aspetta una politica adeguata ai suoi bisogni e alle sue ambizioni.
L’hanno spalancata, quella porta di speranza, i tre milioni e mezzo di italiani che il 14 ottobre hanno cercato il loro seggio elettorale, l’hanno raggiunto, non di rado a chilometri di distanza da casa, hanno fatto la fila per votare ed hanno versato chi un euro, chi di più, per finanziare questa grande impresa di innovazione politica.
Aveva ragione, Pietro Scoppola. La sua intelligenza, la sua passione civile, la sua capacità di prevedere e di non mollare ci hanno aiutato ad arrivare fin qui. Io voglio ringraziarlo, a nome di tutte le democratiche e i democratici. Poco più di un anno fa, al convegno di Chianciano dell’associazione “I Popolari”, questo nostro grande amico e maestro si augurava, e aveva ragione, “che una costituente del Partito democratico, se ad essa si arriverà, sia formata sulla base di una partecipazione aperta come quella che si è avuta nelle primarie”. “La partecipazione – spiegava Scoppola – è la condizione della novità; la novità è la condizione della confluenza” tra di noi.
Non era mai successo, in Italia e neppure in Europa, che un grande partito nascesse in questo modo: dal basso e non dall’alto, e da una così vasta partecipazione popolare. Non era mai successo che un partito esprimesse un’assemblea così ampia e rappresentativa, per la metà composta di donne, ad anticipare quello che è il nostro impegno, che qui voglio confermare: il 50 per cento di presenza femminile in ogni organismo e ad ogni livello.
Un’assemblea che ha dentro di sé la ricchezza di centinaia di giovani, di ragazzi che hanno meno di vent’anni, di ventitre persone di un’altra nazionalità, a portare punti di vista differenti, a segnare la nostra apertura e la nostra voglia di novità.
Come hanno rilevato molti autorevoli osservatori internazionali, l’Italia si conferma un laboratorio di inaspettata innovazione politica.
Due anni fa, alle primarie per il candidato premier del centrosinistra italiano, andarono a votare in più di quattro milioni. In Francia, alle primarie presidenziali, promosse pochi mesi dopo dal Partito socialista e giustamente salutate come un grande evento democratico, si sono espresse 200 mila persone. D’altra parte, erano complessivamente poco più di 300 mila gli iscritti a Ds e Margherita che partecipavano ai rispettivi congressi. Per eleggere assemblea costituente e segretario del Partito democratico si è mobilitata una cittadinanza ulivista dieci volte più grande: la stessa che aveva dato la sua preferenza a Romano Prodi alle primarie del 2005.
Il 14 ottobre abbiamo dunque avuto la conferma che più di tre milioni di persone, nel nostro Paese, si sentono parte attiva dell’Ulivo. E io voglio personalmente ringraziare tutte le donne e gli uomini che sono andati a votare, gli elettori democratici che lo hanno fatto per la prima volta e le migliaia di cittadini militanti nei due partiti politici che esprimono un patrimonio di passione e di consapevolezza politica che sarebbe offensivo ridurre alla dimensione di un impegno di apparato.
Tre milioni e mezzo di persone si sono dette disposte a dare credito al nostro partito, ma ad una precisa condizione: che il Partito democratico dia loro la concreta possibilità di far sentire e far valere la loro voce.
Perché una cosa deve essere chiara, e da domani praticata in ogni atto concreto di costruzione del nuovo partito: il voto del 14 ottobre è stato un voto per il cambiamento, e non per la continuità.
E’ stato, è vero, una risposta alla cosiddetta “antipolitica”, veleno del quale si alimentano le stagioni di difficoltà di una democrazia. Ma non è stata una risposta in difesa della politica così com’è, costosa e inconcludente, prepotente coi cittadini e impotente dinanzi ai loro problemi. Milioni di italiani hanno votato in nome di una politica nuova, più sobria nell’uso delle risorse pubbliche e più efficiente nell’amministrarle, più umile e più competente.
In altre parole, quel voto è stato una precisa richiesta di “discontinuità”. Di più: è stato esso stesso un atto di discontinuità, che ha fatto invecchiare di colpo molte delle consuetudini della politica italiana, rivelatesi quasi all’improvviso per quel che sono: inservibili come ferri arrugginiti.
Il nostro vero problema, adesso, è come evitare di mettere il vino nuovo in otri vecchi. E’ combattere la tentazione di inquadrare questa enorme novità dentro schemi tradizionali. E’ non lasciarci prendere dall’illusione che si possa semplicemente aggiungere il protagonismo di milioni di persone alla forma-partito che abbiamo conosciuto nel Novecento e della quale oggi sopravvivono pallide tracce.
Se fosse così, davvero avremmo fatto una cosa certamente utile, ma in definitiva modesta: da due partiti ne avremmo ricavato uno.
Ma non è stata questa l’ambizione che ci ha mosso e che ha mobilitato il nostro popolo. Insieme, abbiamo voluto dar vita ad un partito nuovo: per fisionomia organizzativa, per orientamento politico e programmatico, per orizzonte ideale e culturale.
Col loro voto, i tre milioni e mezzo del 14 ottobre hanno già fondato un partito che in Italia non c’è mai stato, diverso da quelli che conoscevamo prima: il Partito democratico sarà, perché così lo hanno voluto loro, un partito di cittadini-elettori.
Non potrà essere un partito tradizionale di iscritti, secondo i modelli già conosciuti nel Novecento. Modelli in crisi da molto tempo e, con il calo complessivo dei tesserati e l’abnorme aumento del ceto politico remunerato, da tempo rimpiazzati nei fatti dalla prevalenza di personale politico permanente o semipermanente: un partito di eletti o nominati che cooptano tra loro altri eletti o nominati.
Il popolo delle primarie ha travolto i modelli del passato e ha fatto emergere un nuovo protagonista: non più l’iscritto-tesserato né il politico professionista remunerato, ma il cittadino-elettore attivo, che perlopiù non intende dedicarsi stabilmente alla politica, ma rivendica il diritto di far sentire e pesare la propria voce nei momenti decisivi della vita del partito nel quale si riconosce.
Siamo dunque in presenza di una figura nuova, quella del cittadino-elettore attivo, il vero protagonista della fondazione del Pd: ed è attorno al primato di questa nuova figura che dobbiamo costruire il modello organizzativo del partito nuovo. Un modello nel quale la partecipazione viene prima dell’appartenenza. Nel quale la più grande energia nasce dalla più ampia libertà. Dall’insieme di autonomia e di responsabilità diretta. E’ una sfida di innovazione, ed è qualcosa che deve partire da noi, che deve entrare prima di tutto nella nostra testa.
Non succederà tutto dall’oggi al domani. Ma pian piano i vecchi schemi saranno superati con naturalezza, le identità che sembrano cristallizzate si adatteranno ai tempi nuovi, la visione crescerà con il circolare sempre più ampio delle idee, e in particolare con quelle dei giovani, che prima degli altri cominceranno a ragionare solo in termini di Partito democratico, e non pensando al passato. Come quei ragazzi che oggi crescono conoscendo e valutando solo l’euro, e non certo rifacendosi alla vecchia lira, come chi ha vissuto quel tempo può tendere ancora a fare. E il Partito democratico, che già oggi nasce con questo segno di innovazione, sarà sempre di più un partito nuovo.
Discuteremo e decideremo se darci o meno un tesseramento. In ogni caso, l’iscrizione non potrà più essere una condizione per partecipare. Sarà una scelta non totalizzante. Il segno della soddisfazione per aver aderito ad un partito veramente democratico, la promessa di una disponibilità a lavorare su basi volontarie per gli obiettivi comuni.
Le decisioni rilevanti dovranno essere prese con il metodo delle primarie aperte, ovvero dando la parola e lo scettro ai cittadini-elettori. Con il metodo delle primarie si sono scelti e si sceglieranno il leader e i segretari del partito a livello regionale; e lo stesso dovrà avvenire per i candidati alle massime cariche di governo nelle regioni, nelle province e nei comuni.
Il metodo aperto usato il 14 ottobre è quello che meglio corrisponde all’idea di un partito federale e plurale. Autonomia e federalismo saranno i tratti fondanti di un partito che saprà unire gli obiettivi dell’aderenza alle peculiarità locali e della coerenza con il disegno politico nazionale. Apertura e pluralismo saranno il modo di funzionare di un’organizzazione che poco o nulla avrà a che fare con le vecchie e tradizionali strutture di lavoro, che vivrà invece di momenti e di “forum” aperti alla più grande partecipazione e al contributo di tutti quegli studiosi e professionisti, di tutte quelle persone che rappresentano i mondi del lavoro, della produzione, delle istituzioni, delle università e degli enti di ricerca, del volontariato e dell’associazionismo sociale e culturale; che rappresentano, oggi, le migliori qualità italiane.
Il coraggio e la generosità con cui due grandi forze politiche, a cominciare da chi le ha guidate fin qui, Piero Fassino e Francesco Rutelli, hanno deciso nei loro congressi di dar vita al nuovo partito, devono ora trovare pieno e coerente riscontro in tutti gli atti che andremo a compiere, in ogni passaggio decisivo e in ogni scelta quotidiana che faremo in questo nostro grande lavoro di apertura e di costruzione.
Da domani esistono solo persone, sedi, idee, strumenti, luoghi e forme di confronto e di partecipazione del Partito democratico. E’ questo che dobbiamo costruire. Tutti noi, tutti quelli che hanno votato alle primarie, tutti coloro che da domani in poi vorranno avvicinarsi al Partito democratico. Tutti con questo unico grande obiettivo. Tutti con la passione e la responsabilità che questo impegno richiede.
Un partito strutturato più a rete che a piramide, presente e vivo nella società, in particolare attraverso la promozione, nelle forme meno dirigistiche e più autogestite possibile, in forte raccordo con fondazioni, istituti, associazioni, riviste, di una grande e diffusa pratica di formazione politica, rivolta soprattutto ai giovani come prima e principale proposta di coinvolgimento e impegno, e intesa come preparazione alla cittadinanza attiva e consapevole.
Un partito nel quale, in relazione a ciascun incarico politico, dovrà prevalere la valutazione delle qualità personali dei candidati rispetto alle vecchie appartenenze, a logiche oligarchiche o di corrente, a pratiche più o meno lottizzatrici.
Un grande partito di popolo, che parli delle cose di cui parla il popolo e non di quelle di cui parlano i circuiti mediatici, che costruisca una democrazia meno pesante e meno invadente, più lieve e più veloce.
Se siamo riusciti a mobilitare tre milioni e mezzo di nostri elettori non è stato certamente solo ed esclusivamente per la forza delle nostre organizzazioni, che dubitavano di raggiungere livelli assai meno ambiziosi. E’ stato anche perché siamo riusciti a parlare, spesso in modo radicalmente nuovo, dei temi che riguardano la vita delle persone, di fisco e di mercato del lavoro, di ambiente e di sicurezza, di contenuti e non di contenitori, di programmi e non di candidature. E forse è per questo che già oggi, prima ancora di nascere, i sondaggi ci attribuiscono il ruolo di primo partito italiano.
Un partito nuovo, ci hanno detto i nostri elettori, non nasce per se stesso, ma per l’Italia.
Il Partito democratico nasce con una missione precisa: rendere possibile l’innovazione che è necessaria all’Italia. Innovazione programmatica, innovazione istituzionale, innovazione politica.
Innovazione programmatica, innanzi tutto. Un amico dell’Italia, Anthony Giddens, ha scritto di recente che l’Italia è in Europa “la società bloccata per eccellenza”. E quel che è più grave è che “il senso della crisi, tanto visibile in Germania e in Francia, in Italia sembra non esistere. E’ un paese forse troppo abituato alle crisi, e all’avvicendarsi dei governi, per prendere troppo sul serio l’attuale impasse”.
L’abbiamo vista, questa difficoltà a prendere sul serio la crisi, in molte reazioni conservatrici alle proposte di innovazione avanzate in questi mesi dal Governo Prodi: quasi il Paese possa permettersi di andare avanti così. Con il debito pubblico che la rigorosa azione dei governi del centrosinistra aveva finalmente iniziato a far scendere e che nel 2005 è tornato per la prima volta a impennarsi. Con un avanzo primario passato dal 6,6% del Pil nel 1997 allo 0,3% del 2005. Con una spesa corrente al netto degli interessi passata dal 37,6% del Pil nel 2001 al 40% nel 2005. Con l’evasione fiscale arrivata a livelli record, con stime che la danno a 100 miliardi di euro, 23 dei quali recuperati in questo anno e mezzo anche per il maggiore rispetto che tutti gli italiani stanno dimostrando verso le norme fiscali.
Questa è la situazione ereditata dal governo Prodi, che in un anno e mezzo ha ottenuto risultati importanti: la riduzione del debito e del deficit, le liberalizzazioni, il recupero di credibilità dell’Italia sul piano internazionale e un accordo sul welfare su cui il giudizio più eloquente è stato espresso da cinque milioni di lavoratori. Una nuova dimostrazione di come il mondo del lavoro e il sindacato abbiano a cuore gli interessi generali del Paese e sappiano farsene carico.
Una dimostrazione di fiducia nell’azione del governo che il sistema dell’informazione sembra aver già dimenticato. E’ più facile enfatizzare una votazione negativa al Senato o una dichiarazione trionfalistica fatta da chi sembra aver dimenticato che quando era al governo con cento deputati di maggioranza per cento volte è andato in minoranza in un voto alla Camera. E bene ha fatto Prodi a richiamare tutte le forze di maggioranza ad una più forte coesione attorno al programma della coalizione. Voglio, Romano, che tu sappia di poter contare sul sostegno convinto e deciso del tuo partito, del Partito democratico.
Non è un caso che gli indicatori sul clima di fiducia delle imprese e anche dei consumatori siano migliorati rispetto agli anni del governo di centrodestra. E’ il frutto di misure concrete. Dalla stabilizzazione di migliaia di lavoratori precari alle regole più rigorose per i contratti a termine, dall’aumento delle pensioni minime al bonus per gli incapienti previsto dalla manovra finanziaria, fino alla riduzione di cinque punti e mezzo dell’aliquota Ires e alla semplificazione dell’imposizione fiscale sulle piccole imprese.
Sono segnali di inversione di tendenza in un contesto da anni critico per il nostro Paese. L’Italia è in ritardo in base a quasi tutti i parametri di Lisbona, compresi l’istruzione e gli investimenti nelle tecnologie dell’informazione, per non parlare dei tassi di occupazione, in particolare tra le donne in generale e gli uomini sopra i 55 anni. O dei salari, che proprio ieri il governatore Draghi ha sottolineato essere più bassi che negli altri principali paesi europei. Il tasso di natalità, poi, è il più basso al mondo, anche perché più dell’80 per cento dei giovani tra 18 e 30 anni vive ancora con i genitori. Il deficit di infrastrutture, come sappiamo, è una vera e propria emergenza.
Ed emergenza è il fatto che la flessibilità, che è parte dell’economia moderna, che può essere un’opportunità e una scelta, troppo spesso per i ragazzi italiani è inaccettabile frantumazione dell’esistenza e delle proprie aspettative. E’ qualcosa che ci tocca nel profondo, che riguarda la nostra stessa ragion d’essere, perché il Partito democratico è il partito del lavoro, delle persone che lavorano, che creano lavoro, che rischiano per realizzare le proprie aspirazioni, che hanno il diritto di ricevere le giuste tutele. Non potrei dirlo meglio di come ha fatto qualche tempo fa Alfredo Reichlin: “Nessun riformismo può essere fondato su lavori ‘precari’ e su ‘vite di scarto’, oggi condizione comune per milioni di lavoratori”. E’ quello che succede, se non ci sono le giuste indennità di disoccupazione, se non ci sono gli adeguati percorsi di formazione, se non si torna all’idea che forme di contratto a tempo indeterminato sono normali.
C’è una generazione che già oggi subisce, e che ancor più domani dovrà fare i conti, con la nostra distrazione o peggio il nostro egoismo. Con la nostra incapacità di riformare il welfare, di rendere accessibile e giusto il mercato del lavoro. Di scegliere secondo il merito e dare spazio al talento e all’impegno. Di costruire uguaglianza di opportunità e di rompere quell’immobilismo sociale che mortifica le persone e frena il Paese. Sì, ognuno di noi, ogni padre, farà sempre di tutto per aiutare il proprio figlio. Ma questo aumenta le disparità, non cambia le regole del gioco e non fa crescere davvero il Paese. E’ un’intera generazione di padri che deve entrare in contatto e preoccuparsi di un’intera generazione di figli.
Per questo parliamo di un nuovo patto generazionale. L’Italia deve dare la precedenza al futuro. Questo deve essere il criterio fondamentale delle scelte che tutti noi dobbiamo assumere. Bisogna avere il coraggio di mettere in discussione qualche certezza acquisita o rinunciare a qualcosa, se questo vuol dire creare un’opportunità per il futuro. Non c’è solo l’immediato. C’è il valore delle scelte che si fanno oggi per avere benefici domani.
Lo capì la generazione che nel dopoguerra rimise in piedi un Paese a pezzi dal punto di vista materiale e morale, ridandogli fiducia e slancio, ricostruendo Stato ed economia. Dobbiamo capirlo noi, e certo nasce con questa ambizione, per rispondere a questa funzione storica, il Partito democratico.
Diamo precedenza al futuro. Oggi noi siamo un Paese che spende tanto, ma male, e non solo per l’enorme peso del debito pubblico. La nostra spesa pubblica potrebbe produrre molto più sviluppo e molta più qualità sociale. In Europa siamo considerati la controprova del successo dei paesi scandinavi. Danimarca, Svezia e Finlandia dimostrano che è possibile avere allo stesso tempo finanze pubbliche in salute, bassi livelli di disuguaglianza e alti tassi di sviluppo, di competitività e di occupazione. Il contrario del nostro Paese.
La differenza sta nell’innovazione. I dati comparati a livello europeo ci dicono che i paesi che sono riusciti a realizzare riforme, cioè a immettere innovazione nell’economia, nella società, nel sistema pubblico, sono allo stesso tempo più competitivi sul mercato globale e riescono ad assicurare elevati livelli di giustizia sociale. I paesi come il nostro, che non riescono a riformarsi e ad innovare, non ce la fanno né a tenere il passo con gli altri nella crescita e nello sviluppo e nemmeno non dico a garantire l’uguaglianza, ma almeno a ridurre le disuguaglianze.
Faccio un solo esempio, su un tema che per me assume di più, ogni giorno che passa, l’aspetto di una priorità assoluta: la nostra lentezza nel produrre innovazione lì dove davvero potremmo, per il patrimonio ambientale e i fattori immateriali di cui disponiamo, essere un paese leader nel mondo globalizzato, creare opportunità di crescita economica e estendere il benessere delle persone e delle comunità. Perché non riusciamo a fare quel che si è fatto in Germania, dove negli ultimi dieci anni si è investito nel comparto delle fonti rinnovabili creando 200 mila posti di lavoro? Perché sono pochi i casi come quello della STMicroelectronics, che solo tre anni fa, guidata da Pasquale Pistorio, derivava il 25% dei suoi profitti dai vantaggi economici acquisiti con l’innovazione sul piano dell’efficienza e del risparmio energetico? Perché non si assume come grande obiettivo nazionale quello di fare dell’Italia un paese leader nella diffusione dei pannelli solari, sia termici per il riscaldamento che fotovoltaici per produrre elettricità?
Per questo l’Italia ha bisogno del Partito democratico. Perché noi abbiamo la cultura dell’innovazione che serve all’Italia. Una cultura che non è fatta solo di grandi riforme di sistema, ma anche di applicazione al governo quotidiano della spesa pubblica di una cultura imprenditoriale, che in qualche misura deve essere introdotta anche nella pubblica amministrazione e per i suoi dipendenti. Mettere sotto controllo e rendere produttiva la spesa pubblica: questa è la priorità.
Spendiamo quanto gli altri per la giustizia, ma da noi ci vogliono anni per una causa che negli altri paesi si risolve in mesi. Spendiamo come e più degli altri per la scuola, ma non sappiamo incoraggiare la motivazione e valutare il rendimento di chi fa formazione, e così finisce che a contare troppo è ancora il contesto sociale e familiare, e che le disuguaglianze tra i livelli di apprendimento non sono ancora a livelli inaccettabili. Mentre i quindicenni del Trentino raggiungono livelli di formazione di eccellenza paragonabili a quelli dei loro coetanei del Nord Europa, un quindicenne su cinque del Sud non possiede il bagaglio delle conoscenze definite “elementari” secondo gli standard internazionali. E si potrebbe continuare all’infinito, per dire che il problema per l’Italia è quello di rendere produttiva la spesa: per lo sviluppo e per l’uguaglianza.
Che stanno insieme. E non solo perché, come abbiamo sempre detto, non c’è sviluppo economico senza qualità sociale. Anche perché, come dobbiamo definitivamente imparare a dire, senza crescita dell’economia e delle imprese ogni obiettivo di equità sociale e di creazione di opportunità si allontana. O per essere ancora più chiari: se l’economia va male, non ci può essere giustizia sociale.
E’ anche per questo che il Partito democratico è a fianco delle imprese, che sono il motore della crescita del Paese, che sono uno dei fondamentali fattori della sua “salute”.
E’ pensando alle imprese, oltre che alle famiglie italiane, che abbiamo parlato di un nuovo patto fiscale, della necessità e della possibilità di cominciare subito a pagare meno tasse per pagarle tutti, recuperando risorse dalla lotta all’evasione, come sta facendo il governo Prodi, dall’abbattimento del debito e appunto dalla riqualificazione della spesa pubblica. Ed è pensando alle imprese che dobbiamo preoccuparci di riallineare i tempi della politica con quelli dell’economia: le aziende del Nord corrono, affrontano le sfide della competizione internazionale. A loro va fatto sentire che lo Stato è loro amico e sa riconoscere e valorizzare chi sceglie la via dell’innovazione, della qualità, dell’eccellenza. A loro vanno garantiti servizi efficienti, infrastrutture e un contesto di sicurezza.
Sicurezza che è una delle questioni fondamentali su cui dobbiamo proseguire sulla strada presa, vincendo definitivamente timidezze e conservatorismi, perché non può essere chi non sa nemmeno cosa siano l’integrazione e l’inclusione, ad affrontare nel modo giusto tutto ciò che ha a che fare con il contrasto della criminalità e dell’illegalità.
La politica deve rispondere a tutte queste domande. Deve saper decidere con rapidità e dare tempi certi. Non è possibile, ad esempio, che si sia cominciato a parlare della Pedemontana lombarda alla fine degli anni 60, e che dopo decenni persi a fare un passo avanti e due indietro, si sia arrivati al progetto preliminare solo alla fine del 2005, per arrivare finalmente al bando per la progettazione definitiva la scorsa estate. Dopo il superamento degli ultimi intoppi burocratici, la Pedemontana aprirà i suoi cantieri tra il 2009 e il 2010 per chiuderli tra il 2015 e il 2016. Tanto hanno dovuto e dovranno aspettare le aree di Varese, Como, Lecco, Bergamo e della Brianza per essere collegate tra loro in modo più efficiente senza convogliare traffico supplementare sull’area di Milano. Tanto dovranno aspettare i cittadini, per un’arteria di 87 km che farà risparmiare 23 milioni di ore l’anno di tempo, di traffico, di inquinamento. Tradotto in termini economici, significa un risparmio di oltre 500 milioni di euro l’anno. E questo della Pedemontana lombarda non è purtroppo, come sapete, l’unico caso. Basti pensare al Passante di Mestre o all’eterna vicenda della Salerno-Reggio Calabria.
Noi abbiamo bisogno di una politica semplice, che sappia ascoltare le esigenze dei cittadini, di una democrazia che decida.
L’Italia è malata. La sua malattia è la crisi evidente del nostro sistema democratico. Quasi quaranta partiti, una gara imbarazzante per la visibilità di ciascuno, ognuno che si sente, e purtroppo è, decisivo perché viva una coalizione, un governo, una legislatura. Due senatori, nella democrazia malata del nostro Paese, pesano più di milioni di cittadini che hanno eletto un governo. Un sistema malato, dominato dall’odio, in cui tutti vogliono distruggere e pochi assegnano a se stessi il compito di costruire.
Invece l’Italia ha bisogno di un nuovo inizio, di una nuova stagione. Ha bisogno di una democrazia che decida. Ha bisogno di una nuova coscienza civile, di un nuovo senso della legalità e del valore delle regole. Ha bisogno che si affermi l’etica della responsabilità sul cinismo della furbizia, ormai diffusa.
Un’Italia nuova nasce da un nuovo assetto istituzionale. Se qualcuno mi chiedesse qual è, guardando in Europa, quello che preferisco, risponderei quello francese. Tutto: sistema istituzionale e legge elettorale.
Ma so che insieme a ciò che è giusto c’è ciò che è possibile. E allora penso che dobbiamo, oggi, da qui, rivolgere un appello a tutte le forze politiche italiane, di maggioranza e di opposizione.
Davvero è interesse dei nostri cittadini che il Paese precipiti verso nuove elezioni? Elezioni il cui esito sarebbe solo nuova ingovernabilità, nuove risse, nuova frammentazione? I nostri avversari sbagliano se pensano che il clima in cui si voterebbe sarebbe lo stesso di una ipotetica festa dei banchi dell’opposizione per la caduta del governo Prodi.
La destra ha governato il Paese per sette di questi ultimi tredici anni. Il leader dell’opposizione si è candidato alla presidenza del Consiglio già quattro volte, la prossima sarebbe la quinta, cosa che non succede in nessun paese del mondo.
Nessuno può fare la parte del passante o negare la propria quota di responsabilità nella crisi del nostro sistema. Sette anni di governo non sono un giorno. Con lo stesso numero di anni molte città italiane sono cambiate profondamente.
E c’è un’aggravante. Il centrodestra si è sempre opposto ad ogni dialogo per le riforme. Prima con la bicamerale, poi con lo strappo della “devolution”, oggi dicendo, di fronte all’evidente crisi di sistema, “niente dialogo, subito alle urne”.
Sia chiaro, dobbiamo imparare, noi per primi, che la Costituzione si cambia solo insieme, che non può reggere un Paese in cui ogni maggioranza che vince si fa le riforme che vuole.
Nella scorsa legislatura la maggioranza non era esigua, ma il Paese non ha conosciuto modernizzazione, né innovazioni profonde. Le ragioni sono legate tra loro. La prima è la frammentarietà di coalizioni nate come assemblea dei nemici dell’avversario. Non ci sono culture e visioni che uniscono, né progetti veri da attuare. Ma la seconda ragione è legata al fatto che non funziona la catena dei poteri. E questo provoca, in tutto il tessuto del Paese, una confusione di ruoli, limiti, responsabilità.
Il potere democratico deve essere esercitato. E deve essere, allo stesso tempo, potere e democrazia. La sinistra ha avuto, in diverse fasi, paura della prima parola. Come se decidere, governare fosse ridurre la ricchezza della partecipazione. E invece è l’impotenza di chi decide, la frustrazione maggiore per i cittadini che votano. Votano e vorrebbero decidere chi governa. E non vedere vertici e verifiche, ministri che si dimettono a ripetizione, come nel passato governo, o quelli che litigano in tv, come succede oggi.
I cittadini vogliono votare e vogliono che il Paese sia guidato, per cinque anni, da un governo. Vogliono poi potere, con i loro movimenti e con le loro associazioni, pesare sugli indirizzi.
Questa è la vera democrazia. Il potere e la partecipazione. Non una melassa indistinta in cui è impossibile decidere e diventa persino difficile partecipare. Al Partito democratico vorrei dire di non avere paura di innovare, anche in questo campo.
Ma è qui che rivolgo un appello a tutte le forze politiche. Fare cadere il governo Prodi e andare a votare con questa legge sarebbe un atto irresponsabile. Facciamo, per una volta, ciò che il Paese chiede. Ciò che il Presidente Napolitano, interpretando questa richiesta, esorta tutte le forze politiche a fare. Ciò che è alla nostra portata, ora, in Parlamento, in pochi mesi. Facciamo quello che i cittadini si aspettano e su cui concordiamo: una sola Camera legislativa, la metà dei parlamentari nazionali, più poteri al premier, più velocità di approvazione per le leggi proposte da chi governa. E votiamo contestualmente una riforma del regolamento parlamentare che stabilisca che non sarà più possibile formare dei gruppi che non abbiano la stessa sigla con cui si sono presentati alle elezioni.
Facendo questo, avremo delineato un quadro delle riforme urgenti e possibili e dunque sarà più facile trovare un accordo, anch’esso possibile, sulla legge elettorale.
In questi giorni, leggendo i giornali, ho scoperto di essere in prima pagina il lunedì in una alleanza di ferro con Fini contro il sistema tedesco. Poi il martedì di avere stretto un patto d’acciaio con Bertinotti a favore del sistema tedesco. Intanto il mercoledì avrei complottato per far cadere il governo di Prodi al quale il giovedì mi legherebbe un patto per l’intera legislatura.
A forza di guardare oltre, di non fidarsi di ciò che si dice, si finisce con l’attribuire agli altri le proprie convinzioni.
Devo fare una premessa, per oggi e per domani. Io non coltivo l’idea che un uomo politico debba ogni giorno stare in televisione, ogni giorno dire la sua su tutto, ogni giorno animare o rispondere ad una polemica. Sono fatto così. Penso che la televisione consumi volti, parole, idee. Penso che abbia ragione Giorgio Napolitano a dire che ci debbano essere meno politici in tv. Ma penso anche si debba smetterla con un’idea contabile della par condicio. Un’idea secondo la quale non si può parlare di un tema se non c’è, nello stesso luogo e nello stesso momento, qualcuno che rappresenti la posizione contraria. Basterebbe passare ad una concezione meno burocratica e chiedere ai conduttori di garantire la pari dignità delle opinioni su base settimanale o mensile e non in ogni minuto di ogni trasmissione. Ho nostalgia delle belle interviste di Zaccagnini o di Berlinguer in tv. Ognuno esponeva le sue idee e i cittadini giudicavano non le urla che si sovrapponevano ma le parole e la sincerità di ciascuno.
La mia opinione sul sistema elettorale è che esso debba essere ispirato ad alcuni principi chiari: superare la frammentazione, superare i governi senza maggioranza certa e senza alternanza, superare l’anomalia dei candidati decisi dai partiti e non dai cittadini.
Lungo queste tre direttrici si può scrivere la legge giusta per un Paese che ha tanti partiti e deve ridurli, che ha metabolizzato il bipolarismo e vuole poter decidere i governi con il voto, che ha amato scegliere i candidati nei collegi.
Il sistema tedesco o quello spagnolo non giacevano, quando furono adottati, in qualche deposito di sistemi preesistenti. Sono stati il vestito giusto per il loro paese in quel momento. Sono stati creati dalla necessità storica. Dall’esigenza di non limitarsi a rispecchiare le singole appartenenze o tendenze di opinione, ma di riuscire a canalizzarle, favorendo le aggregazioni in grandi forze a vocazione maggioritaria.
In Francia l’Ump di Sarkozy al primo turno delle elezioni legislative, lo scorso 10 giugno, ha ottenuto insieme ai suoi alleati minori il 41,9% dei voti: una settimana dopo, alla chiusura del secondo turno, ha conseguito con essi il 59,4% dei seggi, il necessario per governare. Dal 2005 il Labour Party governa col 55,2% dei seggi, ottenuto sulla base del 35,2% dei voti. Zapatero governa dal 2004 la Spagna con un 46,9% di seggi ottenuto a partire da un 42,9% dei voti. In Germania Cdu e Spd con il 35,2% e il e il 34,3% hanno poi avuto rispettivamente il 36,8% e il 36,2% dei seggi.
Quello che voglio dire è che in Europa, al fine di salvaguardare la stabilità dei governi, i sistemi elettorali proporzionali hanno sempre una correzione in senso maggioritario. Credo che ne dovremo tener conto, tanto più in ragione della frammentata situazione italiana.
Lavoriamo lungo questi assi, e con questi modelli. Cerchiamo una soluzione condivisa. Ma evitiamo, per il bene dell’Italia, di tornare a votare con questa legge. Meglio di questa legge, giudicata, non dimentichiamolo, in modo tranciante dagli stessi che l’avevano voluta e approvata, è anche l’esito referendario. Ma meglio ancora è che il Parlamento, in queste settimane, dia al Paese una legge coerente che adatti i modelli europei alla nostra condizione particolare.
Noi cercheremo e sosterremo ogni soluzione migliorativa che possa evitare di tornare a votare con la legge attuale. Siamo guidati da una sola necessità politica che consideriamo non nostra ma del Paese. Il futuro dell’Italia è in partiti con maggioranze coese sul piano programmatico. Mai più una legge che costringa ad alleanze forzate e dunque a governi deboli.
L’ho detto in questi mesi, e anche su questo quasi il 76% dei cittadini delle primarie ha voluto darmi fiducia: il Partito democratico pensa nella prossima legislatura ad una nuova stagione politica ispirata alla centralità dei programmi e al valore della coesione.
Ne sono così convinto da pensare che il Paese tra un messaggio confuso, vecchio ed eterogeneo dei nostri avversari e la nitidezza di un partito che si presenti con un programma netto di innovazione, la gara sarebbe del tutto aperta.
Ed è una gara che, in ogni caso, noi giocheremmo con l’obiettivo di conquistare la maggioranza degli italiani, che è stanca della vecchia politica, dell’odio inconcludente, dei riti, delle divisioni. E l’obiettivo è raggiungibile, è possibile. Dipenderà da quanto il Partito democratico riuscirà a rappresentare quei valori di unità e di novità che costituiscono il nucleo forte del suo progetto. Dipenderà dalla sua capacità di dialogare con la vita reale dei cittadini e con le associazioni e i movimenti che li rappresentano.
E anche dalla sincerità, e se posso dire dall’umiltà, con le quali lavorerà per intessere il dialogo e possibili convergenze con altre forze. A cominciare dal movimento dei repubblicani europei, con il quale vogliamo continuare il cammino intrapreso in questi anni. E con uno sguardo rivolto, con particolare attenzione, a quelle forze di ispirazione laica e socialista che possono e devono essere interlocutore necessario di una grande forza riformista. Allo stesso modo voglio rivolgermi ai dirigenti e ai militanti della sinistra democratica che per molti anni hanno come me creduto all’utilità della nascita di una grande forza che facesse riferimento all’esperienza dell’Ulivo. Spero si possa avviare un dialogo e un confronto, con l’obiettivo di ripartire da dove ci siamo lasciati un po’ di tempo fa. Con particolare attenzione dovremo rivolgerci alle esperienze pre-politiche, associative, del volontariato che esprimono la ricchezza della presenza cattolica nella società italiana.
Ma complessivamente, il Partito democratico è interessato a che evolvano processi aggregativi e innovazioni programmatiche e di valori in tutto il sistema politico italiano. Per questo guardiamo con rispetto e interesse alla possibile formazione di un’area di sinistra radicale che abbandoni definitivamente schemi ideologici.
Innovazione programmatica e istituzionale, dunque. E innovazione politica. Da tempo, infatti, abbiamo varcato la soglia del terzo millennio, e da tempo avvertiamo l’insufficienza delle categorie culturali sulle quali si è retta la politica di partito lungo l’arco del Ventesimo secolo. Perché di quelle categorie culturali sono venuti meno in gran parte i presupposti strutturali: basti pensare al primato dello Stato nazionale in una dialettica con mercati altrettanto nazionali; o alla società industriale fondata sulla produzione di massa e standardizzata.
Al loro posto, abbiamo a che fare con la globalizzazione dei mercati e con la società della conoscenza e dei servizi. D’altra parte, le grandi questioni ambientali hanno revocato in dubbio l’ideologia dello sviluppo illimitato e meramente quantitativo, mentre gli stessi progressi bio-medici propongono inediti dilemmi morali alla intelligenza e alla coscienza dell’umanità contemporanea.
Noi abbiamo deciso di dar vita ad un partito e di chiamarlo “democratico” in una fase storica nella quale si va diffondendo il dubbio sulla plausibilità stessa di una visione umanistica della politica: è ancora possibile, ci si chiede da molte parti, dinanzi a fenomeni di proporzioni così gigantesche, che essi siano dominabili dalla libera volontà delle donne e degli uomini che abitano il pianeta e dunque siano, almeno entro certi limiti, oggetto di discussione e decisione democratica?
Molti sono gli elementi di fatto che spingono a rispondere di no. E infatti molti parlano e scrivono, non senza argomenti dalla loro parte, di fine della democrazia, della politica, perfino della storia. Di tramonto dell’illusione umanistica, travolta dall’impersonale materialità di meccanismi globali ingovernabili.
Ma proprio la radicalità della sfida che sta dinanzi a noi, ci dice quanto ambizioso e tutt’altro che “leggero” sia osare definirci “democratici”. Non si tratta di un’identità residuale, ottenuta per sottrazione di aggettivi qualificativi: liberale, socialista, cristiano.
Si tratta al contrario di fare i conti con la vera questione, intellettuale e morale, del nostro tempo, alla quale pur provenendo da storie diverse, e anzi valorizzando ciò che è vivo di ognuna delle culture che abbiamo alle spalle e delle tante contaminazioni alle quale esse hanno dato vita, intendiamo dare una risposta comune: noi, i democratici, crediamo nella possibilità di un governo umanistico delle grandi sfide del nostro tempo e per questo intendiamo impegnarci con tutte le nostre forze e costruire le necessarie alleanze in Europa e nel mondo.
Noi democratici crediamo che un rafforzamento dell’Europa politica sia una condizione imprescindibile per far avanzare una prospettiva di pace nel mondo. E crediamo che il multilateralismo, ovvero il primato della politica e del diritto nelle relazioni internazionali, possa scongiurare la prospettiva dello scontro di civiltà ed evitare una nuova fase di corsa agli armamenti e di proliferazione nucleare. Soprattutto oggi, quando dopo anni di riduzione degli arsenali, Stati Uniti e Russia sono tornati ad aumentare le spese per il loro ammodernamento e potenziamento. Quando dobbiamo sentir dire dal Presidente Putin che nei rapporti con gli Stati Uniti è tornato il clima della crisi dei missili del 1962. E contro il riarmo nucleare bisognerà far vivere un nuovo grande movimento d’opinione.
Noi democratici crediamo nella possibilità di regolare il mercato globale e di orientare la crescita economica mondiale verso gli obiettivi di sviluppo umano indicati dalle Nazioni Unite, potenziando e democratizzando gli strumenti di politica economica internazionale e di negoziato commerciale multilaterale.
Noi democratici crediamo che non possa esserci sviluppo umano senza libertà e senza il pieno riconoscimento del valore universale dei diritti umani, dinanzi al quale non è accettabile alcun relativismo.
Noi democratici crediamo che sia possibile salvaguardare la vita sulla terra ed evitare danni irreversibili all’ecosistema attraverso accordi di contenimento delle emissioni nocive e di investimento nella ricerca sulle fonti energetiche rinnovabili.
Allo stesso modo, crediamo nella libertà della ricerca scientifica e nel dibattito pubblico aperto e laico come sede per la valutazione responsabile del bilanciamento tra i vantaggi delle applicazioni delle tecnologie bio-mediche e i rischi che esse comportino per la dignità della vita umana.
Per dirla in modo sintetico, noi democratici crediamo nel primato della ragione e del suo strumento principe: la parola, il dialogo, la ricerca comune, la creatività, l’immaginazione. E sentiamo estranea una visione che riduca la politica a mero calcolo dei rapporti di forza, quasi essa fosse, come pure è stato detto, la continuazione della guerra con altri mezzi.
Lo voglio ripetere: basta con l’odio. L’odio non fa altro che moltiplicare l’odio, e se rompe gli argini genera la violenza.
Un grande scrittore, che vive in una terra ferita e sofferente, ha detto una volta pensando a noi, al nostro Paese: “In Italia si fa fatica a comprendere come si vive, sempre in guerra e nella paura. Voi siete fortunati”. David Grossman ha poi però aggiunto parole che valgono per tutti e per ogni luogo: “Quando le persone vivono nel campo magnetico dell’odio e della violenza, agiscono in un modo drammaticamente sbagliato, contro il loro stesso interesse di uomini e di popolo”.
Allontaniamo da noi questo campo magnetico. La stagione dell’odio deve finire. Possibile non si possa vivere e fare la politica senza odiare, senza cercare ovunque nemici, rispettando gli avversari e le loro idee? Chi non vuol capirlo non solo insiste nel fare un danno al Paese: decide di proseguire su una strada lungo la quale agli occhi degli italiani diverrà lontano, estraneo.
Il Partito democratico aprirà in questo senso una nuova stagione di civiltà politica. E lo farà, se così dovrà essere, anche unilateralmente. Nella convinzione che di questo l’Italia abbia bisogno. Di un tempo in cui le convenienze di parte spariscono, quando di fronte si trovano le esigenze complessive del Paese. Di saggezza e lungimiranza. Di rispetto per le istituzioni e cura del loro funzionamento.
Il nostro è un grande Paese, nessuno lo dimentichi mai. Dobbiamo riscoprire tutto l’orgoglio di questo. Lo ha detto pochi giorni fa un manager che ha salvato e rilanciato ai massimi livelli la più grande azienda italiana. Un uomo che sa benissimo che questo risultato è stato raggiunto perché ogni dirigente, ogni impiegato, ogni operaio ha saputo mettere nel suo impegno di ogni giorno l’attenzione e la passione che arrivano quando si condivide uno stesso grande obiettivo. E che per questo, senza nulla togliere al ruolo della contrattazione nazionale, come è giusto sia, sa riconoscere il valore del lavoro anche con scelte di discontinuità e di innovazione. “L’Italia – ha detto Sergio Marchionne – è un Paese che deve imparare a volersi bene, deve riconquistare un senso di nazione”.
Non a caso abbiamo scelto Milano come luogo di nascita del Partito democratico. Milano è da sempre il simbolo dell’Italia produttiva, dell’economia che sa interpretare i cambiamenti e trasformarsi con essi. Milano è la città di tante battaglie democratiche, a cominciare da quelle della Resistenza. Ma Milano è, per me, e per quelli della mia generazione, la città nella quale sono caduti uomini come Luigi Calabresi, come il giudice Alessandrini, come Walter Tobagi, come quello splendido esempio di italiano coraggioso e per bene che era Giorgio Ambrosoli. E Milano è stata ed è anche la città di Giorgio Strehler, di Paolo Grassi, di Indro Montanelli, del Cardinal Martini. E’ a questa grande città italiana che anche da qui vogliamo far sentire il nostro sostegno e il nostro impegno per la sfida dell’Esposizione Universale del 2015.
L’identità di noi democratici italiani è un’identità aperta, che molto deve e qualcosa pensa di poter offrire ad altre esperienze riformiste, in Europa e oltre. Un’identità che proprio perché nasce dall’incontro di storie e culture diverse, intende contribuire a promuovere più ampie e nuove aggregazioni riformiste, europee e internazionali: un nuovo campo, che oltre quella socialista esprima la molteplicità delle culture democratiche e dell’innovazione che esistono in tanta parte del mondo.
Per quanto mi riguarda, sono ben consapevole di assumere una grande responsabilità, che avrò la fortuna di condividere con tanti altri e per primo con Romano Prodi. E’ una responsabilità nei vostri confronti, di questa Assemblea, di coloro che hanno sostenuto le mie liste come anche di chi ha preferito scegliere Rosy Bindi o Enrico Letta, Mario Adinolfi o Piergiorgio Gawronski. E’ una responsabilità che affronteremo insieme a Dario Franceschini, che sarà al mio fianco con la convinzione e l’entusiasmo per un progetto che sognavamo e speravamo insieme già dieci anni fa. Ed è inevitabilmente una responsabilità, per tutto quello che abbiamo detto, nei confronti del nostro Paese, di tantissimi italiani, che molto si aspettano dalla nascita del Partito democratico.
Concludo con le parole di uno di loro. E’ una lettera che mi è arrivata qualche giorno fa, all’indomani delle primarie. Ha un altro tenore rispetto a quella della ragazza che lessi a Torino, al Lingotto. E’ un’altra storia, sono altre speranze, ma mettendole insieme esce il ritratto della stessa Italia e si capisce la grandezza del compito che ci attende, il motivo per cui diciamo che la nostra stella polare è data dall’unione di crescita economica ed equità, di libertà e giustizia sociale, di opportunità e di solidarietà.
“Caro Veltroni”, inizia la lettera, “mi chiamo Flavio Cima e sono un giovane imprenditore di Bologna. Non capisco molto di politica e non mi piace affatto, ogni volta che accendo la Tv, sentire gente che urla e che litiga. Mi scuserà se le dico che non ho fiducia nel fatto che i politici possano fare gli interessi delle persone, e in particolare di quelli come me che lottano disperatamente per riuscire ad affermare un progetto concreto in cui credono. Sento dire continuamente che bisogna aiutare i giovani, che l’imprenditoria giovanile va aiutata. Per la mia esperienza le posso assicurare che se non avessi avuto la mia famiglia alle spalle non avrei potuto accedere neanche al credito bancario. Ho rilevato, con l’aiuto economico della famiglia quindi, una piccola azienda artigiana che produce accessori di abbigliamento di qualità e sto cercando di posizionare la mia attività su un livello medio-alto allo scopo di contrastare l’invincibile concorrenza cinese. Ma è dura, soprattutto per un giovane, riuscire a rimuovere la naturale ritrosia del mercato ad accettare il nuovo, l’emergente, in definitiva lo sconosciuto. Lei si chiederà perché le scrivo tutte queste cose. Gliele scrivo perché ho visto che tante persone domenica scorsa le hanno dato fiducia e questo ha rassicurato un po’ anche me. Le scrivo perché secondo me la politica, i politici, dovrebbero occuparsi dei problemi concreti delle persone e soprattutto dei giovani che, come si dice, rappresentano il futuro. Le scrivo perché non mi sento diverso dagli altri ragazzi italiani: certe volte vorrei essere solo preso sul serio, vorrei che anche la mia piccola azienda sconosciuta potesse per un momento essere al centro di qualcosa di importante”.
E’ in fondo questo, il senso profondo del Partito democratico, la sua missione e il suo concreto compito. Far sentire ogni italiano al centro di qualcosa di importante. Restituire speranza, fiducia nelle proprie possibilità e nelle opportunità offerte da una società dinamica e giusta, fiducia in Paese unito, in un’Italia nuova, capace di cambiare, di innovare, di crescere, abbandonando tutti i conservatorismi e dando precedenza al futuro.
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